La riflessione

Morire su un binario sotto la luna piena, la vergogna e l’oblìo

Gino Dato

Unica certezza: non si può perdere la vita sul lavoro. Unico auspicio: venga fatta piena chiarezza.

Ci addormentiamo nella luna piena, una sera di fine estate in cui combattiamo tra temporali e calure, e ci svegliamo, nel cuore della notte, in uno scenario apocalittico, presago di un cupo autunno. Immaginiamo con rabbia la carneficina dei cinque operai falciati da un treno che vicino Torino avanza nel buio, li sorprende e li inghiotte a tutta velocità.

Unica certezza: non si può perdere la vita sul lavoro. Unico auspicio: venga fatta piena chiarezza.

Unica consolazione: «Tutti quanti», per dirla con Sergio Mattarella, «abbiamo pensato come morire sul lavoro sia un oltraggio ai valori della convivenza».

Ma intanto il Paese ripiomba nell’ennesimo sopore di morte, meglio chiamarlo carneficina o sacrificio, meglio ancora strage bianca, che suscita, insieme al cordoglio e alle indagini rituali, la disperazione di domande senza risposte.

Quelle dei famigliari e dei compagni di lavoro, ma anche quelle di spettatori attoniti e impotenti che non hanno perduto l’empatia e l’indignazione.

I numeri che crescono come un inesorabile contatore compongono il bollettino di una strage continua: nel 2022 i morti di lavoro sono stati 1.090 e 697.773 gli infortuni, nei primi sei mesi del 2023 siamo intorno alle 450 vittime e ai 300 mila feriti. C’è da rimanere attoniti di fronte alla beffa ennesima della «civiltà del lavoro».

A ogni ricaduta, versa lacrime di coccodrillo e distilla lezioni di garanzia, ma non riesce a fermare l’emorragia di vite umane, che hanno anche il nome di fragili eroi solitari, a partire da giovani in età scolare impegnati in stage per l’alternanza scuola-lavoro, giovani braccianti o anziani lavoratori.

L’impegno degli ultimi governanti per sanare questo bubbone non era mancato nello stesso discorso pronunciato alla Camera da Giorgia Meloni, almeno come condivisione di principio: «Tutti  concordiamo sull’importanza di porre fine alla tragedia degli incidenti, anche mortali, sul lavoro».

L’impressione è che, al di là del coro delle reazioni cui segue il silenzio, una civiltà sia tramontata e stenti ad affermarsi una nuova era, che debba in qualche modo tutelarci da due mostri: la riduzione dei tempi di lavoro e l’incremento dei profitti. Più che tecnicismi, appaiono assiomi.

Non v’è dubbio che un regime sempre più centrato sull’erosione dei costi, strisciante come mentalità anche nella vita comune, produca gestioni disattente, nella pratica, alle norme di sicurezza, allenti i controlli, le manutenzioni, le garanzie per la salute.

Ad aggravare il cambiamento di scenario crediamo che stia intervenendo la mutazione climatica e ambientale, che introduce altre variabili nel dilemma «sicurezza & benessere», «salute & lavoro», influendo sulle performances dei lavoratori, in particolare soprattutto per chi travaglia su mestieri che si praticano all’aperto e sta sperimentando come cavia effetti indesiderati dovuti a caldo estremo, radiazioni, piogge violente, inondazioni, dissesto idrogeologico, siccità e incendi…

Ma, insieme alle mutazioni strutturali, c’è dell’altro. Siamo un paese profondamente diverso da quello che negli anni Cinquanta marciava trionfante sul sentiero della cultura del lavoro. Lo stesso sistema formativo e tecnologico pare abbia progressivamente sguarnito tutti noi di quel saper fare che deve essere presidio di un modo di agire e di apprendere con le macchine prima ancora che di una competenza. Si sono dileguati nel buon ricordo i «maestri» e i garzoni di bottega.

Siamo passati alla «masterite acuta», all’illusione che si possa imparare in teoria, escludendo la pratica. Magari strizzando l’occhio alla intelligenza artificiale.

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