L'analisi
Se la democrazia rischia l’affanno negli spazi digitali
Nello spazio pubblico il discorso democratico si svolge tra una pluralità di uomini e donne che ragionano, discutono, valutano, giudicano e decidono il senso e il valore del vivere in comune
Èun’illusione che l’intelligenza collettiva fluidifichi la democrazia rappresentativa, introducendo una quantità maggiore di comunicazione e di feedback, come sostiene H. Levy. Nei suoi ultimi volumi il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han (il più recente è Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Einaudi) sviluppa una tesi contraria, secondo cui la rivoluzione digitale, nelle forme estreme dell’infocrazia e dell’infodemia, condiziona in maniera decisiva i processi sociali, economici e politici, e proietta una luce sinistra sul futuro della democrazia, contribuendo al crollo di alcuni degli stessi presupposti che sono a suo fondamento.
Nello spazio pubblico il discorso democratico si svolge tra una pluralità di uomini e donne che ragionano, discutono, valutano, giudicano e decidono il senso e il valore del vivere in comune. Attraverso mediazioni, empatia, valorizzazione dell’alterità e del conflitto, i cittadini producono idee e verità concordate, progetti per il futuro, che abbiano una durata sufficientemente lunga per orientare le istituzioni e la vita in comune, per mantenere una coesione sociale. L’infocrazia rende aleatorio il confronto democratico a causa del collasso delle condizioni di un «agire comunicativo consapevole» (Habermas), attraverso cui perseguire l’obiettivo di giungere a una ragionevole intesa tra potenziali partecipanti al discorso, vincolati all’uso di procedimenti argomentativi e regole di una corretta comunicazione. Le idee e le verità si congedano dalla realtà percepita attraverso i sensi, dalla solidità fattuale di ciò che accade: tutto può essere modellato e manipolato a piacimento. I discorsi e le narrazioni, privati della razionalità e dei riscontri di validità, si trasformano in mezzi di persuasione o di potere, a disposizione di «tribù» digitali e mediatiche, nonché di soggetti politici. Se perde di significato la verità «esistenziale» della narrazione condivisa, che «stabilizza la vita», consolida «la terra sulla quale stiamo e il cielo che si stende sopra noi» (H. Arendt), anche la comunità si indebolisce: viene meno la partecipazione consapevole e controllata alla sistemazione sensata, coerente e ordinata dei fatti e delle opinioni.
Lo spazio narrativo nella sfera pubblica è in parte fisicamente scomparso, in parte si è trasferito sulla rete, dove, tuttavia, spesso i flussi di discorso, provenienti da una infinità di fonti, non si incontrano e non si confrontano, ma si sovrappongono senza modificarsi, non consentendo ai singoli fruitori un concreto potere di controllo e di governo. I contenuti, sottratti alla discussione e alla verifica, assumono l’aura di sacralità degli oggetti di fede, alimentando nei cittadini, come rimedio al disorientamento, modelli identitari rigidi, infondati e inconciliabili tra loro, nonché producendo micronarrazioni da «teorie del complotto».
I cittadini hanno prevalentemente il ruolo di consumatori, isolati e atomizzati. Illusi di essere liberi, in realtà, essi sono sudditi addormentati, incapaci di giudizio, consegnati al disorientamento e alla povertà di senso, ad un fatalismo impotente ad uno status di «dolce intrattenimento», alla cui logica sembra ricondotto sia il tempo di lavoro, caratterizzato dall’ossessiva ricerca della prestazione e del successo, sia il tempo libero. Chul-Han, finissimo analista e interprete del nostro tempo, dà da pensare sulla crisi della democrazia, di cui, tuttavia sembra aver pessimisticamente e forzosamente decretato la fine, profetizzando l’apocalisse autoritaria.
Traendo conclusioni di questo tipo dalle analisi, paradossalmente, egli, contro la sua stessa volontà, legittima una tendenza generale all’«intrattenimento» contro cui non pensa che esistano difese. Eppure esiste anche un’informazione libera; tante voci coraggiose narrano senza timore; è possibile anche porre dal basso confini e regole per limitare il potere infocratico. La storia ci mostra che l’umanità, anche nei tempi bui, anche dopo Auschwitz, dopo la guerra, dopo gli anni di piombo del terrorismo, è stata capace di nascere sempre di nuovo (Arendt), attraverso la democrazia e l’energia misteriosa della libertà. Invece che lasciarci catturare dal pessimismo, dal fatalismo impotente, dal rifiuto aprioristico, dal fascino della dolce inerzia dell’intrattenimento, faremmo meglio a seguire l’insegnamento di Calvino quando ci invita a individuare anche nell’inferno embrioni di mondo nuovo possibile e a lavorare per salvarlo, ingrandirlo, ampliarlo.
Nelle città, che danno forma alla vita quotidiana, nella società civile e nelle istituzioni, si intravedono nuclei di pensiero critico e «democrazia generativa», da sviluppare e ampliare, già concretamente attivi. Se i cittadini non si adagiano in una passiva attesa di «un so che», se superano la paura e l’indifferenza e riprendono responsabilmente, con coraggio e fantasia, a gustare l’avventura dell’azione nel pubblico e in comune, nulla è perduto e non c’è infocrazia che tenga! Se i cittadini sperimentano forme di controllo del potere digitale nelle scuole, nelle famiglie e nella società civile, se portano le loro inquietudini negli spazi comuni, tornano a discutere e a produrre idee, a sperimentare modi per governare e innovare i processi democratici in crisi, a immaginare e realizzare concretamente forme di vita diverse e giuste e se le istituzioni locali si mostrano capaci di donare loro riconoscimento, risorse e garanzie di durata, una nuova Polis può sempre riprendere vita.