L'analisi
L'icona Berlusconi, eccezionale «performer» nel teatro politico
Si riassume tutto in quell’immagine: un piccolo ripostiglio utilizzato come deposito per gli attrezzi in una villa di sua proprietà poco distante da Monza, per l’occasione trasformato in set televisivo
Si riassume tutto in quell’immagine: un piccolo ripostiglio utilizzato come deposito per gli attrezzi in una villa di sua proprietà poco distante da Monza, per l’occasione trasformato in set televisivo. È tutto lì, nella meticolosa ricostruzione della vita e degli affetti alle sue spalle: le file di libri apparentemente disordinate, una piccola scultura del Maestro Cascella inserita appena prima di registrare, le foto di famiglia, il celebre filtro aranciato sulle luci.
Quando quel 26 gennaio del 1994 Berlusconi ufficializzò la sua discesa in campo proponendosi come candidato del fronte moderato, la scrivania dietro la quale sedeva non faceva parte dell’arredamento dello studio privato del Cavaliere. Non ne facevano parte neppure i libri, le cornici, le foto. Quella da cui Berlusconi si rivolgeva al Paese non solo non era la sua celeberrima villa di Arcore, ma neppure la stanza di una casa abitualmente abitata. Era nient’altro che uno sgabuzzino: il luogo perfetto da cui dare vita, a tavolino, all’immagine che, da lì a 30 anni, avrebbe rappresentato l’esatto momento in cui la storia della politica italiana prese una nuova direzione.
In quel videomessaggio di nove minuti, nulla era davvero reale, ma nulla era neppure finto. Si trattava solo di un’altra forma di rappresentazione del verosimile, un esercizio teatrale del più formidabile fra gli attori della politica.
Silvio Berlusconi è stato un grande innovatore della comunicazione politica italiana: non necessariamente il più geniale, certamente il più importante. Ha riscritto il dizionario della politica e del suo racconto, rovesciando le convenzioni di un sistema politico - quello della Prima Repubblica - fino ad allora totalmente impermeabile, e che per quasi 50 anni aveva respinto le innovazioni comunicative che nel frattempo si stavano verificando nel resto dei paesi occidentali. Lo ha fatto, in primo luogo, intercettando e comprendendo quelle trasformazioni politico-sociali che si stavano verificando a cavallo fra la Prima e la Seconda Repubblica: il declino delle ideologie, il tramonto dei partiti di massa, l’ascesa delle leadership personali. E si è poi affidato, prima di tutti, agli esperti, aprendo definitivamente la strada alla professionalizzazione della politica: dall’adozione di strategie di marketing fino all’uso sistematico e strumentale dei sondaggi, il tutto mediato da una straordinaria padronanza del mezzo televisivo.
Perché Berlusconi, prima di qualsiasi altra cosa, è stato un leader televisivo - il più efficace di tutti - perfettamente immerso nel suo tempo ed eccezionalmente capace di sfruttare a proprio vantaggio il potere persuasivo dei media. Un imprenditore di successo, un presidente (del Milan, s’intende) vincente come mai nessuno, un leader a suo modo «umano», con le sue passioni e le sue debolezze. La prima vera icona pop, un eccezionale performer del teatro della politica. Berlusconi era, in poche parole, la massima espressione della borghesia lombarda confezionata come prodotto elettorale, e la narrazione del sogno milanese come metafora - e garanzia di successo - del proprio impegno in politica. E poi, soprattutto, un uomo dalla straordinaria comprensione dei meccanismi della politica e dello star system, sempre più simili: stupire, ammaliare, raccontare e raccontarsi.
Dalla firma del «contratto con gli italiani», a Porta a Porta, cinque giorni prima delle elezioni del 2001 fino alla iconica spolverata sulla sedia su cui era seduto Marco Travaglio, nella sua unica e celeberrima ospitata da Michele Santoro. Momenti che restano nella storia delle televisione e che travalicano il loro significato politico: potenti rappresentazioni di un modo di essere, di una simpatia autentica, di una capacità di maneggiare lo strumento televisivo senza pari.
Al di là di ogni giudizio - morale e politico, se mai possano essere separati - a Berlusconi va riconosciuta l’introduzione di una serie di innovazioni comunicative - in realtà spesso non del tutto originali, nella maggior parte dei casi importate dall’estero - che hanno contribuito prima a decostruire e poi ricostruire il sistema politico per come lo conosciamo oggi, permettendogli di imporsi nel tempo come la leadership più carismatica e longeva della Seconda Repubblica.
Fin dalla sua prima esperienza elettorale, nel 1994, erano chiari i segnali di una personalizzazione che, sebbene già parzialmente verificatasi con la leadership di Craxi, mai si era manifestata con quella prepotenza: nessuna campagna elettorale, fino ad allora, era mai stata così centrata sulla figura del leader. Così come non era mai accaduto che, all’indomani del voto, qualcuno si autoproclamasse Presidente eletto in quanto legittimato dal voto popolare, dato che la Costituzione non ha mai previsto un’investitura di questo tipo. Le innovazioni introdotte da Berlusconi non si limitarono a coinvolgere la sfera comunicativa, ma finirono per investire l’intero sistema: fu ad esempio il primo a sovrapporre, in modo così marcato, il ruolo di leader di partito a quello di Presidente del Consiglio, oggi dato per scontato. E fu la sua leadership esuberante a costringere il centrosinistra, dapprima incapace di adattarsi e accettare quelle innovazioni, a cercare nel 1996 una figura - quella di Romano Prodi - capace di proporsi come candidatura alternativa e unificatrice, dando forma a quel sistema bipolare che segnerà un pezzo di storia italiana.
Quelle elezioni, ancora più della tornata elettorale precedente, rappresentarono l’approdo ormai definitivo della comunicazione politica alla spettacolarizzazione e personalizzazione dei leader. E in quello che era un Paese già fortemente orientato verso il bipolarismo, figlio della riforma elettorale maggioritaria del 1993 - e quindi già abituato a legittimare, nella sostanza, il leader a capo della coalizione vittoriosa - l’avvento di Berlusconi contribuì in modo decisivo ad istituzionalizzare il leaderismo come forma di esercizio del potere: un sistema in cui «il capo è centro e cardine della politica» - per citare il sociologo Carlo Galli - e la ricerca ossessiva del consenso un elemento comune a tutti i protagonisti dell’arena politica.
Era il periodo in cui l’Italia subiva una trasformazione radicale e oramai irreversibile: da partitocrazia chiusa e ricalcitrante a leaderocrazia aperta alle ambizioni di figure come Berlusconi, che giunse persino a codificare la personalizzazione nel sistema politico inserendo il proprio nome nel simbolo di Forza Italia.
Un’eredità - simbolica - che ancora oggi resiste, per un leader che se n’è andato rinunciando ad abdicare, senza designare eredi né promuovere delfini («si sono poi rivelati delle sardine», disse). Ed è, in definitiva, l’addio dell’ultimo leader carismatico della storia d’Italia: uno straordinario uomo di spettacolo in grado di innovare radicalmente il sistema politico e la sua comunicazione molto più di quanto, in realtà, non sia stato capace di fare per il Paese che ha governato.