Il commento
Cambia il concetto di tenda; dall’icona arcaica di rifugio al simbolo della precarietà
Come cambia di significato la tenda, icona che dalle Sacre Scritture, dalle origini dell'uomo, ha aggrumato in sé una bivalenza: luogo di incontro e di riparo tra umani, tra umani e divino, ma anche luogo di transito, di travaglio e di insicurezza.
Con il trascorrere dei secoli, la tenda si è radicata tra migrazioni, passaggi epocali di massa, anche se il senso del nomadismo è traslocato soprattutto su altri simboli, altrettanto drammatici, il barcone che solca i mari, o il confine, la frontiera, tra Stati e popoli.
Con l’età contemporanea, abbiamo liberato la tenda di ogni valenza negativa, anzi è divenuta, con la liberazione e la protesta delle nuove generazioni negli anni Sessanta del Novecento, il simbolo stesso del riscatto e della gioia di vivere, magari alla giornata e in beffa degli adulti ma comunque alla conquista del mondo, man mano che le frontiere si aprivano o si abbattevano. La gioventù e i movimenti di tutto il mondo si sono autoconvocati e conosciuti nelle feste e nei party sotto e nelle tende, che offrivano libertà informale, così come frugalità e contatto con la natura.
Siamo poi transitati dal «due cuori e una capanna» al metter tenda delle prime fughe e viaggi giovanili all'insegna della avventura, sull'onda di un Primitivismo che, pur pregno del benessere occidentale, indicava una protesta contro la società affluente.
Ma oggi? Forse il senso del piantar tenda è sfuggito di mano ed è mutato. Grazie a un gesto apparentemente innocuo, è stata una giovane studentessa di ingegneria, Ilaria Lamera, a rispolverare, con l'uso dimostrativo di questa cellula abitativa di semplice difesa, tutti i significati più profondi del disagio e della incertezza: al contempo, dell'accamparsi alle soglie della città che protegge ma è anche pronta a escludere con la sua carica di espulsioni e marginalizzazione di tutti i deboli, specie se poveri, come in genere sono deboli e poveri i giovani.
Rassicuriamo i malpensanti. La tenda e la sua ostensione non costituiscono un assalto alla libera proprietà e al diritto a coltivarla, semmai la provocazione di un simbolo che sta a stigmatizzare il fallimento delle politiche dello studio, della formazione. Ancora più inadeguate le rende una speculazione edilizia che si è spostata dalla speculazione edilizia alla funzione e sfruttamento turistici: rendono indisponibili o esose migliaia di stanze vuote che fungheggiano nel Paese.
Sono strutture che contribuirebbero, se regolamentate nella disponibilità e nell’utilizzo, innanzitutto al diritto allo studio di tanti giovani, perché risolverebbero in primis la questione irrisolta di una casa, in secundis scoraggerebbero anche il fenomeno dell'abbandono degli studi, sempre più preoccupante. Interviene anche papa Francesco, che agli stati generali della maternità semplicemente dichiara: «Affitti alle stelle, servono correttivi al mercato».
I fuori sede leggendari, espressione di una mobilità sociale del Paese, rischiano di trasmutare nei senza sede, allungando la lista dei senza: senza documenti, senza lavoro, senza una terra, senza diritti, senza futuro. Senza una casa, nessun futuro scandisce il popolo delle tende. Non solo. Una stanza e una casa appartengono alla libertà di essere e di crescere, innanzitutto dei nostri giovani, di costruire progresso e lavoro.
Una stanza e una casa le annoveriamo nella disponibilità delle cosiddette capabilities, le capacitazioni, come il filosofo anglo-indiano Amartya Sen definisce le precondizioni perché tutti abbiano nella vita accesso e possibilità di emanciparsi e raggiungere i propri obiettivi.