il commento

Più che presidenzialismo, serve un confronto leale sugli interessi del paese

Sergio Lorusso

Oggi il tema torna in evidenza grazie all’iniziativa della premier Giorgia Meloni

È targato Bettino Craxi – divenuto presidente del Consiglio nel 1983 – il primo tentativo di introdurre il presidenzialismo nel nostro ordinamento: elemento fondante della c.d. «Grande riforma» costituzionale propugnata dal leader socialista ma destinata a restare (sono parole dello stesso Craxi) «un inutile abbaiare alla luna».

Oggi, a quarant’anni di distanza, il tema torna in evidenza – in condizioni ed equilibri politici assai differenti – grazie all’iniziativa della premier Giorgia Meloni che, per onorare una promessa fatta nel discorso d’insediamento lo scorso 25 ottobre, ha avviato un confronto con le forze dell’opposizione in vista di un’iniziativa legislativa – dai contorni ancora non delineati – in questa direzione.

È opportuno, allora, cercare di mettere a fuoco i punti essenziali della questione, evitando per quanto possibile logiche di schieramento e pregiudizi strumentali che rischiano di ingenerare confusione e di condurre a esiti falsati. Tradizionalmente si intende per presidenzialismo la forma di governo in cui il capo dello Stato è eletto dal popolo ed è capo dei governi che egli stesso nomina; governi che non possono essere sfiduciati dal Parlamento ed hanno, dunque, una durata predeterminata. È noto che l’esperienza presidenziale per antonomasia è quella statunitense, che praticamente fin dalla nascita (1787) ha adottato tale modello nella sua versione «pura»: una versione che – peraltro – non è l’unica possibile, molteplici essendo le variabili in concreto.

Dunque, non basta dire presidenzialismo ma occorre anche intendersi su cosa si propone in concreto. Gli obiettivi indicati dalla premier in quell’occasione – stabilità dei governi e centralità della sovranità popolare – ben difficilmente potrebbero essere messi in discussione da qualcuno. Così come l’intento «di passare da una «democrazia interloquente» a una «democrazia decidente» non può che essere sottoscritto da chiunque, se si considera il cattivo stato di salute della nostra democrazia in cui, di fatto, un Parlamento che viaggia a velocità ridotta viene sistematicamente schiacciato dal Governo a colpi di decreti-legge.
La Meloni – in pochi lo ricordano, anche se non è passato molto tempo – ha fatto espresso riferimento a un modello «soft», quello del semipresidenzialismo alla francese, in cui il Presidente è sempre eletto dal popolo ed è dotato di poteri maggiori e più incisivi rispetto al modello parlamentare, ma non può governare da solo poiché esiste un Governo (di nomina presidenziale) che deve ottenere la fiducia dal Parlamento.

Un modello meno estremo, che in teoria potrebbe trovare riscontri anche a sinistra, se si considera che in passato (2012) il Pd aveva formulato una proposta di riforma costituzionale in tal senso. Ma gli scenari in poco più di un decennio sono profondamente mutati, ed è un dato costante che iniziative in direzione presidenzialista vengano proposte da partiti – o da alleanze – che contano di avere i numeri per governare e, dunque, di fruire del «decisionismo» che accompagna inevitabilmente il modello presidenziale nelle sue varie declinazioni.

Occorre allora decidere se, per dirla con il giurista francese Maurice Duverger, non sia tanto importante «avere un Presidente eletto, ma assicurarsi un Esecutivo che funzioni e che, quindi, esprima un leader autorevole», o se, invece, solo l’elezione diretta del Presidente è in grado di garantire legittimazione e consenso tali da avere un governo che duri per un’intera legislatura ed un premier che sia espressione della volontà popolare e non di accordi di Palazzo.

Inutile dire che non esiste una soluzione preconfezionata, che i modelli teorici devono fare i conti con la storia dei singoli Stati – in Italia molte resistenze al presidenzialismo provengono dalla paura dell’«uomo forte», esperienza vissuta drammaticamente dal nostro Paese ed ignota agli Stati Uniti o alla Francia –, così come non si può non ricordare come sul fronte delle riforme istituzionali sono franate maggioranze in apparenza granitiche con i loro leader (Matteo Renzi docet).

È importante, però, che il confronto sull’argomento avvenga (per quanto possibile) lealmente, avendo di mira gli interessi reali del Paese, evitando di ingenerare confusione magari invocando impropriamente – come pure talora è stato fatto – un attacco alla Costituzione, la cui intangibilità invece (come tutti sanno o dovrebbero sapere) riguarda solo i Principi fondamentali e non già la parte relativa all’Ordinamento della Repubblica.

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