L'analisi
Covid e zona rossa: quanto vale una vita umana?
Cosa succede, allora, se la valutazione dei costi «sociali e politici» porta a conclusioni opposte rispetto a quella dei costi «economici», e si privilegia la prima rispetto alla seconda?
Quanto vale una vita umana? Il 2 marzo 2020 il Presidente del Consiglio Conte affermò che «la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato».
Ma l’indizione della zona rossa aveva anche dei benefici, in termini di risparmio di vite umane. La difficile scelta che il governo, nazionale e regionale, doveva affrontare verteva quindi sulla stima di questi costi, e benefici. La vita umana non ha prezzo, diciamo - giustamente - tutti: non può essere acquistata o venduta. Essa ha però un valore economico: lo vediamo, ad esempio, tutte le volte in cui viene determinato, in base a parametri oggettivi quali età e reddito, il risarcimento da riconoscere ai parenti delle vittime di incidenti stradali. Ed anche le eventuali, possibili, future perdite di vite umane hanno un valore; nel Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, quando esaminiamo i progetti di realizzazione di nuovi tronchi stradali, prendiamo in considerazione le relative Analisi Benefici Costi, verificando che i costi (certi) di realizzazione dell’opera siano inferiori alla quantificazione economica dei relativi benefici per gli utenti, tra i quali c’è la riduzione di mortalità per incidenti stradali, stimata in termini probabilistici.
Non si realizza quindi la strada che, in assoluto, registrerebbe il minor numero di incidenti (ammesso che sia possibile progettarla), ma quella per la quale è ottimizzato il rapporto benefici/costi. Oggi è relativamente agevole quantificare, ex post, il valore economico di costi (mancata produzione e relativi redditi) e benefici (risparmio di vite umane) di una anticipata istituzione della zona rossa in Val Seriana, e valutare quindi se gli amministratori hanno assunto le decisioni migliori.
Sarebbe stato possibile farlo anche ex ante? È questo un quesito fondamentale al quale i magistrati sono chiamati a rispondere. Ma il Presidente Conte parlò anche di «costo sociale e politico», e qui il discorso assume caratteri molto più complessi, per gli inevitabili risvolti etici. Con quale metrica possiamo misurare i costi «sociali e politici» di una decisione? Chiudere al pubblico uno stadio, impedire le visite ai ricoverati nelle RSA, costringere i ragazzi alla didattica a distanza, solo per fare degli esempi, comporta disagi che non riusciamo a quantificare economicamente, ma che possono essere stimati in termine di perdita di consenso politico.
Cosa succede, allora, se la valutazione dei costi «sociali e politici» porta a conclusioni opposte rispetto a quella dei costi «economici», e si privilegia la prima rispetto alla seconda? Cosa succede cioè se i nostri amministratori sono più spaventati dalla possibile perdita di voti che da quella di vite umane, ed agiscono di conseguenza, rinviando l’assunzione di scelte impopolari ma necessarie, mettendo quindi l’interesse del partito davanti a quello della nazione?
La metrica dei voti può essere molto più crudele, e irrazionale, di quella degli euro. Non sappiamo se la giustizia potrà dare risposta a queste domande: auguriamoci che ci riesca almeno la storia.