il commento
La vera riforma della giustizia? Un diritto penale «minimo» oltre l’onnipotenza del processo
La recente riforma Cartabia in materia di giustizia penale merita, anzi impone, qualche riflessione
La recente riforma Cartabia in materia di giustizia penale merita, anzi impone, qualche riflessione a chi, come chi scrive, per oltre mezzo secolo si è occupato di questi temi.
1. Non tutti sanno che le regole del processo hanno conosciuto, nelle varie epoche, una rilevanza di sistema del tutto marginale rispetto a quelle sostanziali e sono state ritenute meritevoli di approfondimento scientifico soltanto in epoca recente. La prima cattedra di diritto processuale penale distinta da quelle di diritto penale è stata infatti istituita in Italia soltanto nel 1938, dalla Università di Roma, che l’affidò a Vincenzo Manzini, notissimo studioso. Prima di allora la procedura era stata insegnata come parte minore del diritto penale sostanziale.
2. Ebbene, quello che per anni è stato riconosciuto dagli operatori e dai cattedratici come diritto minore, mero supporto, ancorché necessario, del «fratello maggiore», il diritto penale sostanziale, conosce invece da anni, ovverosia dal 24 ottobre 1989, giorno dell’entrata in vigore del codice vigente, ben altra attenzione scientifica, giacché ormai divenuto più importante, ai fini delle pronunce giudiziali, dello stesso diritto penale sostanziale.
3. In un epoca neppure tanto lontana i penalisti di fama, da Carnelutti a Pisapia, da De Marsico a de Nicola, si imponevano come grandi oratori, capaci di dimostrare il loro valore nel momento dell’arringa difensiva con la quale si concludeva il dibattimento, nel corso della quale i temi trattati erano, essenzialmente, quelli del fatto contestato all’imputato, la sua ricorrenza, la sua riferibilità ad una figura tipica di reato prevista dal codice penale.
4. Oggi, viceversa, il grande avvocato penalista è, innanzitutto, un esperto delle regole, giacché il processo, proprio per il suo carattere accusatorio, è competizione, confronto tra pubblica accusa e difensore sulle rispettive prove portate nel processo, sulla legittimità dei vari momenti processuali che portano alla decisione, non più un confronto sui reati ma un confronto sulle regole.
5. La lunga premessa è necessaria per comprendere appieno le politiche del diritto che da oltre trent’anni si susseguono nel nostro Paese con lo scopo, peraltro mai raggiunto, di rendere più funzionale il nostro sistema di giustizia penale.
6. Ma andiamo con ordine. Dall’entrata in vigore del codice di procedura penale, il Parlamento nazionale ha approvato un profluvio di interventi riformatori volti a rendere più rapidi i giudizi penali ed in tali sensi si è mossa, da ultimo, la ministra Cartabia e la sua recentissima riforma.
7. Ebbene, ancora una volta il legislatore ritiene che la giustizia penale nel nostro Paese possa diventare più rapida, più efficiente, più giusta intervenendo sulle regole del processo. Nulla di più errato, nulla di più illusorio. Ancora una volta l’onnipotenza della superstizione processualistica illude, lusinga, incanta. Il nodo vero della crisi e della inefficienza del sistema non sta nelle regole, ma nelle caratteristiche del modello penale sostanziale.
8. Cerco di argomentare siffatto giudizio. Il nostro sistema penale è compromesso, nella sua efficienza, dal suo insopportabile dimensionamento (vieppiù aggravato dalla obbligatorietà dell’azione penale imposta costituzionalmente) sconosciuto nelle democrazie occidentali. In nessun Paese europeo vige, infatti, una realtà «panpenalistica» analoga a quella che caratterizza il nostro sistema, frutto di precise cause storiche.
9. Esso, il nostro sistema penale intendo, è giunto alle attuali dimensioni in conseguenza di due importanti apporti storici e culturali. Per un verso l’illuminismo, che disvelò la dimensione democratica del diritto penale come strumento per tutelare valori essenziali della convivenza civile e delle libertà individuali, di guisa che più diritto penale significava più libertà, più democrazia, maggiore tutela dei diritti individuali, dall’altra il fascismo e le culture autoritarie di cui tale regime è stato portatore, in forza delle quali il diritto penale assunse il ruolo e la funzione di controllo sociale e di strumento a servizio della tirannide. Queste due correnti ideali e politiche, insieme, ancorché contrastanti, hanno portato alla formazione di quel sistema penale sovradimensionato cagione vera, strutturale, della crisi che si intende affrontare.
10. Di qui i rimedi, da ricercare nel profondo e radicale ridimensionamento del diritto penale sostanziale, nella riduzione massiccia delle condotte penalmente perseguibili, nella costruzione di un diritto penale a servizio della società di oggi che, per questo, deve rispondere a due precisi caratteri identificativi, deve essere «minimo» e «mite».
11. Cosa deve intendersi per diritto penale minimo è presto detto (sul «mite» tornerò in altra circostanza). Fin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo risalente al 1789 e, quindi, alla Rivoluzione Francese, il criterio giustificativo della criminalizzazione dei comportamenti venne identificato nella loro «dannosità sociale», criterio questo ancora oggi irrinunciabile. La sanzione penale, nella società attuale, deve essere residuale, deve colpire cioè condotte socialmente avvertire come gravi e per questo meritevoli di essere affidate all’accertamento di una macchina costosa e complessa come quella giudiziaria.
12. Ecco allora l’esigenza di affermare, magari in Costituzione, il principio della riserva di codice, per introdurre nel sistema la regola legislativa secondo la quale le condotte criminali sono soltanto quelle previste nel codice penale ed in testi unici (in materia fiscale e tutela del lavoro) ad esso parificati. Questa è la vera ed unica riforma in grado di restituire al nostro Paese un diritto penale moderno, giusto, efficiente, mantenendo, nel contempo, la regola costituzionale irrinunciabile della obbligatorietà dell’azione penale, l’unica in grado di assicurare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.