La cattura
Ma qualcuno ha protetto il vecchio boss
A conti fatti, il Nostro non si è tumulato da nessuna parte. Anzi, in questi trent’anni di latitanza, ha condotto una vita piuttosto agitata (e agiata) tra donne, affari, guai di salute, capi firmati e orologi da decine di migliaia di euro
C’è una battuta che da ieri gira sui social: «Ritrovata la penna persa trent’anni fa. È sempre stata sulla scrivania». Ed, in effetti, Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande boss dell’era delle stragi di mafia, è sempre stato lì. In Sicilia. Ma non chiuso in qualche bunker anti-atomico e nemmeno in qualche hollywoodiana stanza segreta di quelle che si rivelano tirando il candelabro o il libro giusto dallo scaffale.
A conti fatti, il Nostro non si è tumulato da nessuna parte. Anzi, in questi trent’anni di latitanza, ha condotto una vita piuttosto agitata (e agiata) tra donne, affari, guai di salute, capi firmati e orologi da decine di migliaia di euro. Altro che vecchia mafia coppola e lupara. Andava allo stadio, Messina Denaro, a seguire le partite del suo amato Palermo. Trascorreva le vacanze in Germania, a Baden, attraversando le strade d’Europa in macchina. Macchina, sia detto per inciso, segnalata anche da una foto satellitare presso una sua presunta villa tedesca nel 2015 ma tutto morì lì. Senza seguiti né troppi approfondimenti. Ancora, U Seccu intratteneva fecondi rapporti commerciali (francesismo) con altri campanili d’Italia ma anche con la Spagna, gli Stati Uniti, il Sud America. Poi la malattia, l’operazione all’ospedale «Abele Ajello» di Mazara del Vallo, il ciclo di chemio. Anche tre dosi di vaccino anti-Covid, come protezione per sé e dimostrazione di alto senso civico. E questo solo grattando la superficie e trascurando tutti i racconti di folklore sui selfie con i medici, sul «solito bar» frequentato ogni giorno, sulla quantità industriale di gente che sapeva perfettamente chi e dove fosse. Bisogna aggiungere, poi, che da qualche settimana a questa parte qualcuno si è messo a vendere palle di vetro. Una l’ha comprata Salvatore Baiardo, l’ex factotum dei fratelli Graviano, che, intervistato da Massimo Giletti, vaticinò l’arresto di Messina Denaro già a novembre. Con uno scarto di 24 ore: «Pensavo lo arrestassero nell’anniversario della cattura di Riina, il 15 gennaio, e invece hanno atteso un giorno in più», ha confidato ai taccuini del Fatto. L’altra palla, più modesta, l’ha comprata il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che il 9 gennaio scorso aveva buttato lì una frase di speranza: «Vorrei essere il ministro che arresterà Messina Denaro». Ragazzi, passateci due numeri per il Lotto perché le palle funzionano benissimo.
Fuori dalle ironie, il combinato disposto fra l’incredibile latitanza trentennale e gli spoiler sull’imminente arresto hanno scolpito nella cittadinanza una doppia convinzione: la prima è che a Messina Denaro sia stato «permesso» di rimanere libero per tutto questo tempo e che l’arresto sia stato in qualche modo «concordato». O, quanto meno, sia il frutto di una trattativa tra l’interessato, ormai vecchio, malato e probabilmente isolato, e lo Stato. Complottismi? Illazioni? È la vox populi, bellezza, che troverà conferma o smentita nelle dichiarazioni che il vecchio boss renderà agli inquirenti. L’inchiostro nella penna ritrovata dopo trent’anni sarà il mercurio nel termometro della verità.
Nel frattempo, senza abbandonarsi ai complottismi, resta da capire chi abbia protetto il boss per sei lustri. Perché qualcuno, di certo, l’ha fatto. La mafia, ovvio, insieme a cittadini poco desiderosi di passare alla storia (e a miglior vita). Anche la «fetta di borghesia siciliana», evocata del procuratore Maurizio de Lucia, avrà di certo avuto un ruolo. Imprenditori, professionisti, forse qualche politico di medio cabotaggio. La borghesia, in fondo, è questa. Tutto perfettamente comprensibile e probabilmente vero, ma, signori, non basta. Non si gozzoviglia indisturbati sotto casa, tra orologi di lusso, donne e il «solito bar», senza che a proteggerti sia qualcuno più in alto. L’unico che può. L’Innominabile. Magari quella parte «deviata» che è l’eterno cacio su tutti i peggiori maccheroni della storia del Paese, ma comunque siamo lì. Viene alla mente la celebre scena del film Il Camorrista, magistralmente interpretato da Ben Gazzara nei panni romanzati di Raffaele Cutolo, ormai divenuto così potente da avere i grandi poteri pubblici in fila dietro la porta di casa. «Scenderanno a patti con me, verrà lo Stato», grida euforico al poliziotto/Leo Gullotta che, innamorato della propria utopia, replica: «Chiunque verrà, quello non è lo Stato». Dategli il nome che volete. Ma, alla fine, qualcuno da Gazzara/Cutolo ci va davvero. E qualcuno ha protetto Matteo Messina Denaro.