L'analisi

L’Italia che non spende e la figuraccia PNRR. Colpa della burocrazia

Michele Partipilo

È toccato a un uomo del Sud, il ministro Fitto, annunciare quello che in molti temevano: l’Italia non riesce a spendere i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). «La previsione di spesa – ha dichiarato Fitto, che ha la delega a coordinare il Piano – quando fu approvato era di 42 miliardi al 31 dicembre, poi è stata corretta al ribasso a 33 miliardi una prima volta e a 22 miliardi lo scorso settembre. Nei prossimi giorni noi prenderemo atto di quanto si è speso, temo che la percentuale di spesa non sarà molto alta e sarà distante dai 22 miliardi di euro».

Dunque non siamo in grado di utilizzare nei tempi previsti neppure un terzo dei 66,9 miliardi di euro già erogati da Bruxelles. Il meccanismo europeo per distribuire i soldi destinati alla «ripresa e resilienza» è semplice ma inesorabile. Prima è stata individuata la cifra globale da assegnare a ciascun Paese. L’Italia è stata la maggiore beneficiaria con 191,5 miliardi di euro.

L’Europa ha versato 24,9 miliardi come anticipo già ad agosto 2021; a fronte dei primi obiettivi raggiunti dal governo Draghi ha pagato altre due rate da 21 miliardi ciascuna (ad aprile e novembre 2022). Il meccanismo a questo punto prevede che vi sia una verifica somme spese: se non si raggiungono i tetti prefissati, si blocca il pagamento delle rate successive.

Come ricordato da Fitto, non riusciremo a utilizzare nei tempi previsti neppure la cifra minima di 22 miliardi. Il che fa pensare che quando Germania e Francia si sono dimostrate generose con l’Italia, appoggiando l’assegnazione di quasi 200 miliardi, l’abbiano fatto con una certa perfidia. Della serie: destiniamo pure questi soldi agli italiani, ma incapaci come sono non riusciranno a spenderli tutti e li restituiranno. Del resto è quanto è successo e succede con i vari fondi di sviluppo che l’Europa mette a disposizione delle regioni più povere, Puglia compresa.

Ma il punto non è questo. La questione è: perché l’Italia non riesce a spendere la valanga di soldi che le consentirebbe di avvicinarsi agli standard dei Paesi più evoluti e – soprattutto – permetterebbe al Sud di colmare buona parte del divario che lo separa dal Nord? Naturalmente ci sono più fattori che concorrono all’incapacità di spesa, che diventa così la prova provata dell’arretratezza strutturale del Paese.

Si può dire però che il principale freno sia rappresentato dalla burocrazia. Enti, istituzioni, centri ricerca che hanno presentato progetti e ottenuto fondi nell’ambito del Pnrr ora non sanno come fare per investirli e rendicontarli. Manca personale amministrativo adeguato. I responsabili dei vari progetti sono disperati, stanno provando in ogni modo a reperire giovani laureati per seguire le pratiche, curare la documentazione, tenere i contatti burocratici con Roma. Niente da fare. I pochi soggetti presenti nelle pubbliche amministrazioni sono oberati di lavoro, essendo gli unici. Pur essendoci la possibilità di assumere, con varie forme di contratti, nessuno si fa avanti. E i tecnici europei incaricati delle verifiche sono già a Roma per cominciare a «mettere il naso» nelle carte.

La vicenda, drammatica e paradossale, richiama alla mente l’impiegato Checco Zalone del film Quo Vado. Il personaggio è la sintesi dell’arretratezza della nostra macchina amministrativa. Il mito del «posto fisso» contiene in sé il principio dell’inamovibilità e dunque della staticità, dell’ora e per sempre. Risultato: la maggior parte delle pubbliche amministrazioni è ferma al secolo scorso, come mentalità innanzitutto; poi come dotazioni tecnologiche e infine come organizzazione. La formazione del personale, che dovrebbe essere costante e continua per tenere il passo con la società che corre, è una rarità. Del resto non abbiamo inventato noi la regola del «silenzio-assenso»? In pratica se una pubblica amministrazione entro 30 giorni (90 per alcuni settori «sensibili» come salute e ambiente) non risponde a un’istanza, si ritiene che la risposta sia positiva. Un meccanismo per ovviare all’inerzia della Pa e tutelare diritti e interessi dei cittadini.

Se questo è il principio alla base della legge 241/90, l’uso che se ne è fatto ha però dilatato molto i confini e annacquato le eccezioni che pure la norma contiene. La regola del silenzio-assenso comporta che spesso non solo non vi sia una comunicazione all’interessato, ma anche che quella istanza non sia stata verificata da alcuno. Sarebbe interessante sapere, per esempio, quante delle pratiche edilizie degli ultimi trent’anni a Ischia siano state «approvate» grazie a questa regola. Per altro con il silenzio-assenso è piuttosto difficile risalire al vero responsabile del procedimento. È una delle cose che probabilmente scoprirà l’inchiesta della Procura di Napoli, molto enfatizzata dai media, quasi che sia un’iniziativa eccezionale: di fronte a 12 morti e un Paese disastrato la magistratura non doveva muoversi? È verosimile invece che nonostante enfasi e prevedibile raffica di avvisi di garanzia, alla fine l’inchiesta non approderà a nulla di concreto. Un po’ come la direttrice di Quo Vado, che non riesce a mandare a casa l’impiegato Zalone. Con buona pace del ministro Fitto che dovrà ora giustificare all’Europa la figuraccia italiana.

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