IL COMMENTO
«Libertà è partecipazione», oggi andiamo a votare per il futuro di noi tutti
Alle urne per un atto di responsabilità verso le generazioni precedenti che hanno combattuto per la libertà
Vi è piaciuta la nostra copertina? «Libertà è partecipazione», cantava cinquant’anni fa Giorgio Gaber, artista geniale e anarchico, i cui brani sembrano scritti ieri o forse domani (oltre a La libertà cercate su YouTube, che so, Il conformista o Destra-Sinistra). «Libertà è partecipazione» può significare tante cose e di certo evoca le stagioni dei Settanta in cui la politica era ovunque, nella vita come nei rapporti interpersonali, all’insegna della speranza o dell’utopia. Un mondo fa, che non mette conto rimpiangere.
Oggi è tutto diverso e la politica ha assunto altre forme e nuovi indirizzi, che talora per pigrizia stentiamo a riconoscere e a capire. Basti pensare alle analisi e alle opzioni politiche che circolano sul web e sui social, bazzicati e anzi abusati dai leader che nelle scorse settimane hanno perfino «scoperto» TikTok con risultati invero un po’ grotteschi. O guardiamo all’impegno ambientalista dei Fridays for Future o della generazione Greta, che dir si voglia: ragazze e ragazzi molto più svegli dei genitori nel lanciare l’allarme climatico i cui effetti da ultimo hanno tragicamente colpito le Marche.
«È stata la più brutta campagna elettorale di sempre», si legge qua e là. Non sapremmo dire se è vero. Da almeno un paio di decenni, infatti, nell’agone non si confrontano le opzioni alternative e i programmi dei partiti (che nessuno legge), bensì i caratteri individuali e le trovate mediatiche dei protagonisti, secondo la deriva del «partito personale» individuata dallo studioso Mauro Calise (Laterza ed., 2000). Di sicuro, nella campagna elettorale estiva alcuni temi cruciali sono stati soltanto evocati, a mo’ di macchie di colore in un affresco di cui sfuggono la complessità e i rischi. La guerra scatenata da Putin in Ucraina, oltre alla morte e agli orrori che continua a seminare e al criminale strappo nel diritto internazionale, mutila l’Europa dell’immensa anima russa, come ha annotato lucidamente la filosofa Roberta De Monticelli (“Domani”, 23 settembre). La guerra riporta la violenza della Storia sulla scena del vecchio continente inflaccidito, viepiù dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, da un lungo periodo in cui la dimensione del tragico appariva espulsa dall’orizzonte, faccenda altrui - in Africa, in Asia, in America Latina - che poteva al massimo impensierirci, ma non toccarci.
Non è così, purtroppo, come hanno dimostrato il Covid e poi l’attacco di Putin sferrato subito dopo. E chissà che la tempistica bellica del Cremlino, per la questione del Donbass aperta fin dal 2014, non abbia tenuto conto della nuova consuetudine al lutto dell’Europa reduce dalla pandemia. Fatto sta che da qualche giorno si parla come se nulla fosse, e «senza scandalo», delle conseguenze di un eventuale attacco atomico...
Al conflitto, e non solo a quello, sono legati altri scenari foschi che già si riflettono nelle bollette del gas o della luce, con ciò che comporta nella vita quotidiana delle famiglie e nelle attività delle imprese e degli esercizi commerciali, quindi del lavoro. Già, il lavoro e il Sud dove il lavoro scarseggia sono stati i grandi elementi rimossi dalla campagna elettorale, nonostante taluni frettolosi espedienti e la «discesa» dei leader a Taranto, Bagnoli o Palermo. Si è parlato poco di come mettere a frutto gli ottanta miliardi del Pnrr riservati al Mezzogiorno per colmare lo storico divario con il Centro-Nord (da utilizzare entro il 2026, il tempo stringe) e dei piani di intervento per le altre risorse in arrivo: 54 miliardi dai fondi strutturali 2021-2027, 9,4 miliardi da React-Eu, 58 miliardi dal Fondo Sviluppo e Coesione etc. Si è parlato davvero troppo poco di sanità e di scuola, dopo il biennio funesto e devastante della pandemia che speriamo sia relativamente «sotto controllo». Niente s’è detto degli effetti sociali del lockdown sui giovanissimi, per i quali andrebbero moltiplicate le opportunità di vita comunitaria in scuole strutturalmente all’altezza della nostra tradizione culturale e in strade e luoghi sicuri alla sera, sottratti alle distorsioni della movida, parola spagnola libertaria e bellissima, divenuta sinonimo di caos.
L’elenco delle rimostranze potrebbe continuare, ma oggi si vota. «Libertà è partecipazione» per noi significa recarsi ai seggi e scegliere, sapendo che il voto non è «solo» un diritto straordinario ancora negato o inquinato in varie parti del mondo (vedi i referendum-farsa del Donbass), nonché «un dovere civico» sancito dall’articolo 48 della Costituzione. Il voto è un atto di responsabilità verso le generazioni precedenti che hanno combattuto per riconquistare la libertà e verso quelle che verranno, è una trama o un patto nel tempo che rende coeso un Paese. Ma è anche un’assunzione di responsabilità personale di ogni singolo elettore, una scelta adulta che non dovrebbe essere indulgente verso l’eterna «adolescenza» politica della semplificazione e della rissosità, dello scaricabarile e del tirarsi fuori. Il voto è una delega non in bianco, perché la politica sia restituita al suo etimo greco, al suo significato: arte e scienza del governare. Oddio, in Italia più arte che scienza, più fantasia che razionalità, ma questo è un altro discorso.