il commento

Astensionismo, il rischio da esorcizzare

Pino Pisicchio

La fuga dalle urne è già di suo una crepa nella democrazia parlamentare perché indica una scissura tra elettore ed eletto

La possibilità che il 25 settembre si registri un astensionismo ancora più vistoso di quello delle ultime tornate elettorali è cosa concreta. Un po’ per la bizzarria del voto estivo che ha costretto praticamente a zero la campagna elettorale e quel poco che c’è è rimasto affidato non ad un sano rapporto candidato/cittadino, ma solo agli spottoni della tv di Stato, somministrati con occhiuta proporzionalità (riferita alla vecchia rappresentanza parlamentare); un po’ perché una legge elettorale che non ti fa scegliere i tuoi rappresentanti non è che sia poi così incentivante; un po’ perché la «decrescita infelice» della partecipazione al voto segna, ad ogni nuova elezione che si svolga in stagioni «normali» (e non in estate) un calo fisiologico dai tre ai cinque punti percentuali, e figurarsi, dunque, adesso, con la gente ancora distratta dal mare blu; un po’ tutto e fors’altro ancora, l'attesa è di una partecipazione tra il 65 e il 70%. Il che- per capirci- non è che ci metterebbe fuori dalla media usuale di affluenza per le legislative nel vecchio continente (Inghilterra 67,3% nel 2019, Germania 76,8 nel 2021, Spagna 69,88 nel 2019 e Francia addirittura 47% nel giugno di quest'anno), ma sicuramente cancellerebbe una tradizione partecipativa tutta nostra che, fino agli anni '80, oscillava tra l'80 e il 90% di votanti. Ma allora c'erano i partiti. Oggi no.

Dunque la fuga dalle urne è già di suo una crepa nella democrazia parlamentare perché indica una scissura tra elettore ed eletto, un non rispecchiarsi più di tanto nell’istituzione, insomma:una partecipazione dubbiosa, col freno tirato. Quando poi si capisce che nel disincanto generale nei confronti della politica le giovani generazioni sono quelle più in fuga, beh, qualche inquietudine sul futuro ci prende. I sondaggisti- veri padroni della scena politica in mancanza d’altro- raccontano che almeno il 43% dei giovani in età tra i 18 e i 34 anni potrebbe astenersi dal voto. E c’è da scommettere che nel rimanente 57% non ci troveremmo i giovanissimi, gli esordienti al voto di Camera e-per la prima volta all’età di diciott’anni- di Senato, ma solo i più grandi, magari quelli che hanno avuto la fortuna di affacciarsi al mondo del lavoro e alle dinamiche sociali che lo caratterizzano. Stiamo parlando di 10 milioni e 350 mila italiani, tanti sono i giovani in età tra i 18 ai 34, più del 17,5% della popolazione, che rischiano di presentarsi all’appello in ordine così sparso da perdere l’indirizzo delle sezioni elettorali prima di metterci piede dentro. D’altronde lo scetticismo storico nei confronti della politica e delle sue azioni concludenti nei confronti delle giovani generazioni- solo l’8% attribuisce alla politica la capacità di occuparsene in modo decente secondo Quorum/You Trend del 28 agosto- fa presto a trasformarsi in furia: Sky TG 24 del 28 agosto faceva sapere che la politica ispirerebbe al 55% degli italiani solo sentimenti di rabbia e risentimento.

Quale che possa essere il valore che intendiamo attribuire al sondaggio basato su campionatura scientifica, ognuno di noi può adoperare un metodo artigianale per interpretare l’aria che tira: il metodo “nasometrico”. Sarà meno scientifico ma parlare con la gente del tema purtroppo non restituisce sentimenti diversi. La diserzione dei giovani, però, è ancora più grave, perché toglie speranza, chiude la porta al cambiamento, relega la cosa pubblica a roba da faccendieri senza orizzonte e senza alcuna nobiltà d’intenti. I partiti in competizione hanno già messo nel conto la fuga dei giovani dal voto e dunque ne parlano solo per dovere di copione (o per grattare qualche voticino che resta). Qualcuno addirittura esagera con la proposta dell’abbassamento dell’età: il voto ai sedicenni, quando non si riesce ancora a convincere i diciottenni a partecipare, è solo una boutade. Il sentiment giovanile oscilla tra l’indifferenza assoluta rispetto al fenomeno politico, inteso come estraneo e marginale rispetto al percorso di vita di ogni singolo, e la diffidenza assoluta nei confronti di politici che aderiscono all’immagine dell’inaffidabilità sparsa nella vulgata.

Questo il Paese non se lo può più permettere. Come invertire la tendenza? Occorrerebbe rimettere in vita i partiti come luoghi di democrazia e di preparazione delle classi dirigenti: erano queste «formazioni sociali» a garantire il rinnovamento della rappresentanza politica mettendo in campo giovani formati nelle scuole di partito. Che si può fare, allora, oggi, per tentare di metterci una pezza?Basterebbe guardarsi attorno e vedere come agiscono altre democrazie europee: per esempio la Germania, che pone a carico dello stato il finanziamento delle fondazioni politiche a condizione che compiano il loro dovere istituzionale di formare i giovani. Sarebbe troppo imparare da loro una lezione che già conoscevamo e poi abbiamo dimenticato?

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