Il punto di vista
Se il web inafferrabile resta l'unico editore, la democrazia è in pericolo
In sintesi, il copyright è un sistema di appalto della funzione di censura che risponde con successo all’innovazione tecnologica
Due recenti interventi su queste pagine di Michele Laforgia e Silvio Maselli hanno richiamato l’attenzione sulla crisi delle sale cinematografiche italiane: il divario crescente tra costi e ricavi, strutturale nello spettacolo dal vivo, si allarga anche nel cinema, spettacolo duplicabile per natura; ed è interessante osservare che ciò diventi via via più pesante proprio nell’anello «vivo» del sistema, cioè le sale pubbliche.
Non c’è dubbio che la crescente disponibilità domestica di opere filmiche metta in difficoltà la fruizione collettiva nelle sale. Ed è senz’altro vero che la tendenza sia stata accelerata dalle chiusure in pandemia. Credo tuttavia che sia importante cogliere il dato epocale: l’insostenibiltà dei costi è direttamente connessa alla qualità delle opere e alla «bellezza» del fruirle dal vivo. Non è un caso che fu proprio il cinema francese, all’inizio degli anni ‘90, ad avanzare il principio di «eccezione culturale« contro il principio del «divieto di aiuto di Stato» e che la Francia operò l’aiuto proprio sostenendo direttamente le sale. Non ci deve stupire se queste procedure furono oggetto di attività di spionaggio da parte degli Stati Uniti.
Vale la pena dunque fare un passo indietro nel tempo e ricordare brevemente le dinamiche storiche fra creatività e libertà civili e fra libera espressione e tecnologia che oggi attraversano una profonda crisi: occorre un pensiero nuovo, e a sua volta creativo, poiché la libertà di espressione e la stessa democrazia sono a rischio. Ed occorre innanzitutto superare alcuni equivoci.
In primo luogo bisogna ricordare che il tema della tutela dell’opera di ingegno (che ci è caro) è sempre connesso col tema della censura (che ci è antipatico); ciò vale da quando, circa tre secoli addietro, fu inventato il copyright ovvero il «diritto di lucrare la copia in esclusiva» e che viene tradotto in modo approssimativo con «diritto d’autore».
In secondo luogo occorre ricordare che il copyright nasce per rinnovare l’esercizio della censura da parte delle autorità statali (Inghilterra e Francia) o religiose (Italia): la progressiva riduzione dei costi di stampa aveva moltiplicato enormemente il numero degli stampatori tra XVI e XVIII secolo.
In terzo luogo, dobbiamo sapere che l’invenzione del copyright regola i rapporti di 3 attori sociali: autore (che può cedere la parte patrimoniale di un’opera di ingegno), stampatore (che può comprarla in esclusiva lucrandone la duplicazione), editore (che risponde della legittimità della stampa di fronte alla legge).
In sintesi, il copyright è un sistema di appalto della funzione di censura che risponde con successo all’innovazione tecnologica. Qualunque idea di società comporta l’esercizio legittimo di una censura e pertanto non bisogna confondere il concetto di censura con l’accusa di illiberalità.
Infine è bene sapere che questo sistema funziona oggi esattamente come tre secoli fa, ma solo a patto che quei tre attori rimangano sulla scena. Negli ultimi 30 anni uno di essi, l’editore, ha iniziato a scomparire, oggi è moribondo e questo comporta enormi problemi di democrazia e di libertà.
Ciò che mette in crisi il copyright è lo stesso processo che portò la Corona di Inghilterra ad inventarlo: l’innovazione tecnologica abbassa senza sosta i costi di duplicazione solo che fino al recente passato ha portato alla moltiplicazione costante di stampatori ed editori mentre oggi la duplicazione liquida e il sostanziale azzeramento dei suoi costi ci ha resi tutti potenziali creatori ed effettivi duplicatori, ma sta facendo sparire gli editori. Essi sono i responsabili della funzione di censura, cioè garantiscono che la duplicazione distribuisca una parte dei profitti all’autore e non rechi danni morali alla collettività. Se gli editori scompaiono, e il web li fa scomparire, occorre inventare qualcosa che ne ripristini la funzione di responsabilità pubblica: se l’editore si riduce tendenzialmente ad uno, solo e inafferrabile, esiste un problema di libertà.
In fondo è il ben noto problema della tecnologia mai neutrale. Essa oggi mina alle basi da un lato le tutele dell’opera di ingegno e dall’altro l’esercizio legittimo della censura. Ma senza censura non c’è democrazia e senza l’innovazione dell’ingegno non c’è futuro. (Il caso italiano del sostanziale monopolio della Siae, tanto dannoso quanto inefficace, meriterebbe un discorso a parte).
6 gennaio 2021: democrazia o discredito?Mentre l’assalto a Capitol Hill era ancora in corso, Twitter ha assunto la decisione di sospendere il profilo di Trump. Alcuni commentatori «liberali» hanno salutato l’episodio come prova che, sebbene sotto stress, i principi della democrazia sono in fondo saldi. È molto probabile che sia vero il contrario, dal momento che la chiusura del profilo di Trump era connessa con tutta evidenza con la perdita di valore dei titoli dell’editore Twitter come conseguenza istantanea del discredito crescente del Presidente americano presso l’opinione dei clienti Twitter.
È senz’altro interessante questa dinamica tra capitale finanziario e opinione pubblica; ancora di più lo è la tempistica: l’opinione pubblica non ha trovato insopportabile le migliaia di fake «liquide» che ogni mese sono state veicolate da Trump per molti anni, ma ha trovato subito insopportabile la più «solida» cronaca televisiva del tentato colpo di Stato.
14 maggio 2022: economia del fake Nella scalata per la proprietà di Twitter, Musk ha ventilato l’ipotesi di cancellare alcuni milioni di profili fake. Nel giro di poche ore dopo questa dichiarazione, le azioni del social network hanno perso circa il 10% del loro valore.
L’episodio ci porta a pensare che l’enorme redditività dei social sia legata inevitabilmente alla pervasività della disinformazione: saremmo di fronte ad un paradossale tentativo di suicidio dell’opinione pubblica istigato dallo strapotere della comunicazione «liquida».
Concludo questo appunto con un invito a ridiscutere il nostro vocabolario strettamente connesso a questi temi: quello che attiene alle politiche culturali e alle diverse crisi del sistema di produzione e fruizione delle opere di ingegno.
Dovremmo evitare di utilizzare in modo generico il termine cultura, giacchè esso è estensibile a qualunque attività umana, per evitare che esso si confonda con il concetto di economia della cultura. Nello stesso tempo nelle politiche pubbliche si aggrava la confusione fra attività culturali e beni culturali.
Sarebbe necessario, quando pensiamo alle politiche pubbliche, perseguire una paziente distinzione tra le quattro aree: editoria, arti plastiche, spettacolo riproducibile, spettacolo dal vivo; e ricordare che un qualunque concetto di «contemporaneità» riguarda eventualmente le prime tre, essendo lo spettacolo dal vivo per sua natura sempre contemporaneo.
Chiudo con un allarme ed un invito all’utopia: è la socialità in quanto tale ad essere compromessa dalla «comunicazione liquida« ed è la mano pubblica che, ricostruendo un «pensiero democratico della censura», dovrà garantire il futuro della creatività.