Il siderurgico

Sotto i camini dell’ex Ilva, dieci anni dopo i sigilli occorre un po’ di verità

Mimmo Mazza

Si capirà, finalmente, se l’acciaieria più grande d’Europa, a quasi dieci anni dal suo sequestro, è ancora o meno fonte di malattia e morte per operai e residenti

Qualunque sarà l’esito – accoglimento, accoglimento con prescrizioni, rigetto – l’istanza di dissequestro dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto avrà un effetto chiarificatore per chi in quella fabbrica ci lavora e per chi invece abita nelle vicinanze.

Si capirà, finalmente, se l’acciaieria più grande d’Europa, a quasi dieci anni dal suo sequestro, è ancora o meno fonte di malattia e morte per operai e residenti.

Nel motivare il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, eseguito dai carabinieri il 26 luglio del 2012, il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco scrisse: «La grave emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive dell’Ilva, impone l'immediata adozione – a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana – del sequestro preventivo dei predetti impianti funzionale alla interruzione delle attività inquinanti. Ciò, affinché – considerate le inequivocabili e cogenti indicazioni affidate alla valutazione dell’Autorità Giudiziaria dalle perizie espletate e dagli ulteriori accertamenti svolti nel corso delle indagini – non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico».

Dieci anni dopo, cosa è cambiato? E quanto è cambiato?

I commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria hanno depositato la richiesta di dissequestro forti del quasi completamento del piano ambientale approvato con legge dello Stato ma anche ben consci della necessità di rispondere a un preciso input del Governo, stretto tra il bisogno di rispondere ad un obbligo contrattuale – l’assenza di misure cautelari sul complesso aziendale ex Ilva è una delle condizioni necessarie per trasformare il fitto degli impianti in vendita – e la paura di dover investire ulteriori risorse in Acciaierie d’Italia, la società formata da ArcelorMittal, la multinazionale dell’acciaio che gestisce l’ex Ilva dall’1 novembre 2018, e la statale Invitalia.

A maggio Invitalia dovrebbe salire al 60% del capitale sociale di Acciaierie d’Italia ma a quanto pare il Governo ora sarebbe intenzionato a restare all'attuale 38% ma comunque tentando di sminare il campo da possibili contestazioni contrattuali, tra le quali proprio la persistenza del sequestro.

Certo, l’interlocutore dei legali dei commissari straordinari dell’Ilva non è dei più teneri. La corte d’assise di Taranto il 31 maggio dell’anno scorso alla fine di un processo lungo e tortuoso, distribuì ben 29 condanne (23 persone fisiche e 3 persone giuridiche), disponendo la confisca degli impianti dei quali ora viene chiesto il dissequestro.

Periodicamente negli ultimi dieci anni si sono levate voci che denunciavano nuove emissioni inquinanti da una fabbrica che da quel famoso 26 luglio del 2012 non ha mai smesso un giorno di produrre acciaio.

Voci non raccolte da alcuno, né in un senso né nell’altro. Nessuno ha mai chiesto la revoca della facoltà d’uso che fu concessa dal Governo Monti, prima, e poi confermata da tutti gli altri Governi che si sono succeduti alla guida del paese, né tantomeno ha chiesto il dissequestro, nemmeno parziale, relativo magari al singolo impianto sottoposto a rifacimento o ambientalizzazione che dir si voglia.

I parchi minerali sono stati coperti, la copertura è stata a sua volta spolverata di rosso dal minerale di ferro: la decisione della corte d’assise sulla istanza dei commissari straordinari ci aiuterà a capire se ora va tutto bene, se ancora non basta, se si sono persi tempi e soldi per un’opera incapace di assicurare alle abitazioni del vicino rione Tamburi una adeguata protezione contro le polveri del parco minerale della fabbrica.

Può sembrare poco ma non lo è affatto: Taranto e i tarantini hanno bisogno di capire se 10 anni di sequestro sono trascorsi inutilmente o se invece i lavori fatti sono davvero in grado di garantire una co-esistenza, senza compromessi al ribasso, tra l’acciaieria e una città ormai protesa verso un futuro altro rispetto a quello garantito da fumi e acciaio.

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