IL COMMENTO
Ungheria, Serbia e non solo: vince l’uomo forte e la democrazia è senza risposte
Le riconferme al «potere» di Viktor Orbán e Aleksandar Vučić hanno colpito le cancellerie e le opinioni pubbliche
La vittoria di Viktor Orbán, confermato per la quarta volta come capo del governo in Ungheria, e quella di Aleksandar Vučić, rieletto presidente della repubblica in Serbia, hanno colpito le cancellerie e le opinioni pubbliche di diversi paesi europei, già scosse per le notizie drammatiche provenienti dall’Ucraina. Al confine orientale dell’Unione europea, ma con un piede dentro, si profila un coacervo di affinità (ideologiche, religiose e culturali) che trovano rappresentanza in leader politici che guardano con simpatia a Putin e al suo regime (come Orbán ha fatto capire subito, con un riferimento sprezzante a Zelens’kyj). In posizione diversa, ma non per questo meno preoccupante, si trova anche la Polonia, che teme l’espansionismo russo, ma da anni coltiva una propria versione del nazionalismo revanscista che lentamente, ma inesorabilmente, sta soffocando quel che rimane dei regimi costituzionali instaurati in quei paesi dopo la dissoluzione del blocco sovietico e la drammatica - e sanguinosa - fine dell’esperienza unitaria della Jugoslavia. Si conferma con questi eventi la diagnosi formulata da Ivan Krastev e Stephen Holmes in The Light that Failed (2019), un libro in cui si segnalava il pericolo che in Europa si consolidasse un comune sentire, che potrebbe prima o poi diventare un’alleanza politica, tra forze che rifiutano il modello liberaldemocratico.
Nel loro libro, Krastev e Holmes individuano nelle transizioni squilibrate dai regimi comunisti alle democrazie liberali, e soprattutto a un’economia di mercato neoliberale, i fattori che hanno contribuito a creare un risentimento nei confronti dei paesi occidentali, che è diventato il terreno fertile in cui la pianta del nazionalismo autoritario ha messo radici, e sta prosperando. La «strong man politics» - come l’ha chiamata Gideon Rachman in un saggio pubblicato nei giorni scorsi sul «Financial Times», che si può leggere ancora on-line - vince, insomma, anche per via della debolezza della democrazia liberale, che sembra aver tradito le sue promesse. Ne è prova il fatto che, dopo la crisi finanziaria, tendenze simili sono emerse anche in paesi di solida tradizione liberale come gli Stati Uniti (con Trump) e il Regno Unito (dove una preoccupante metamorfosi è in corso da tempo nel partito Conservatore) e ha trovato sponda anche in Francia e in Italia (con Le Pen e Salvini). Purtroppo, fino ad ora, la reazione dei liberali in Europa è stata inefficace. Oscillando tra la negazione (trattare il problema come un’anomalia momentanea) e la fuga in avanti, verso una riedizione di un liberalismo militante e muscolare che si ispira al modello del Cold War Liberalism del secolo scorso.
Ciò che è mancato, e manca tuttora, è una riflessione seria sui limiti della democrazia liberale nella sua versione neoliberale, che ha prodotto società nelle quali la diseguaglianza cresce, alimentando il malcontento di un ceto medio che vede il proprio benessere minacciato da fattori che non riesce a controllare (perdita di posti di lavoro, precarizzazione, riduzione delle opportunità per chi non riesce ad accedere a percorsi di formazione esclusivi o non può beneficiare di network relazionali che mettono al riparo dagli aspetti più duri della competizione). Un po’ diversa la situazione è negli Stati Uniti, dove Joe Biden ha mostrato di aver compreso la natura del problema, individuando nell’intervento pubblico nell’economia, e in misure fiscali redistributive, i provvedimenti che potrebbero ristabilire un consenso interclassista sui fondamentali di un patto sociale equo. L’iniziativa di Biden, tuttavia, è indebolita dalla forza che ha ancora la destra repubblicana, sostenuta da ingenti risorse private, che finanziano i politici che garantiscono di opporsi alle politiche contro la diseguaglianza e in favore dell’inclusione sociale. La guerra in Ucraina ha ulteriormente eroso il consenso del presidente, che si trova a far fronte a una crisi che lo costringe a privilegiare la sicurezza rispetto alle riforme economiche e sociali. Insomma, di fronte a una destra nazionalista aggressiva e, per ora, vincente, i liberali appaiono divisi, incerti, incapaci di offrire una visione che faccia sperare in un futuro migliore.
In questo clima cresce l’attrazione della «strong man politics» che trova in Putin, e in Xi Jin Ping, modelli cui si guarda con ammirazione. Per tornare a vincere i liberali dovrebbero rendere nuovamente il capitalismo attraente per i deboli e gli esclusi, e per coloro che si sentono minacciati dagli esiti di un patto sociale iniquo. La democrazia dovrebbe tornare ad essere la promessa credibile di una forma di governo basata non sull’ordine dell’egoismo (per riprendere la felice espressione dello storico del pensiero politico John Dunn) ma sull’eguale libertà.