Lavoro e cinema

Amianto che uccide: il film «Cara Alice» del barese Armenise ispirato a tragedia ex Fibronit

Anton Giulio Mancino

Un'opera di denuncia con una struggente forma narrativa. E un estratto di «Pane e amianto. Girotondo di una città sopra un milione di vite» di Giuseppe Armenise, per anni redattore della «Gazzetta»

BARI - Per un cortometraggio come Cara Alice del giovane filmmaker barese Gabriele Armenise, attualmente allievo del Centro sperimentale di Cinematografia di Palermo, è una bella responsabilità il tema delle morti sul lavoro nel caso Fibronit. Non a caso è stato realizzato con il contributo del Garante Regionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Puglia.

Da un lato c’è quindi la responsabilità civile e il fattore istituzionale del discorso che restituisce forza implicita a Cara Alice come opera di denuncia in struggente forma narrativa della lunga e drammatica scia di morti causata dalla «fabbrica dei veleni» di Bari, quindi del conseguente e diuturno scandalo umano, lavorativo e ambientale. Dall’altro c’è l’approccio originale che Armenise sceglie per costruire questa commossa parabola privata dove il mondo esterno viene quasi assorbito dallo spazio tra i personaggi del nucleo familiare e dalla struttura epistolare. Il risultato che coniuga maturità stilistica e capacità di raccontare per piccoli blocchi emozionali in maniera austera e moderna, giunge diretto al cuore mediante la scelta rigorosa di non accontentarsi del puro dato contenutistico, o di ricercare l’effetto emotivo immediato.

La complessità di Cara Alice, che si sgancia dagli standard del cortometraggio italiano corrente proprio per l’elevato grado di personale e dolente partecipazione agli eventi, sta tutta in un suo preciso sottotesto sentimentale. Nella scelta di questo personaggio di padre e marito, interpretato da Fabio Salerno, che intrattiene una corrispondenza fatta di complicati sguardi, parole sofferte e ricordi irrecuperabili con la Alice del titolo (Elisabetta Aloia), serve leggere molto altro. Indicative, o addirittura indiziarie in una necessaria analisi testuale come «cifra nel tappeto» è la richiesta infatti del protagonista, ormai condannato e intestardito a restare nello spazio disabitato della fabbrica killer, di potere leggere il giornale, ovvero “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Tra le righe infatti dell’indignazione tradotta in una forma filmica sincopata e giocata con grande intelligenza su una pudica sottrazione si insinua il dialogo parallelo tra l’autore cinematografico e suo padre, indimenticabile giornalista che sulla Fibronit si è concentrato per decenni e dedicato il romanzo Pane e amianto. Questo doppio registro arricchisce Cara Alice di un valore aggiunto in cui la regia molto controllata diventa sinonimo di gesto affettivo che trascende il plot. La tenerezza tra i due coniugi e la tragedia che si riverbera sui personaggi delle due figlie, alle prese con lo sforzo di trattenersi dall’esternare la sofferenza, diventa parte integrante della grammatica e della sintassi delle immagini temprate da un’ispirazione non estemporanea.

Armenise conosce la materia e la padroneggia dall’interno e dall’esterno, senza soluzione di continuità, perché la elabora non soltanto come espressione contingente, bensì come istanza interiore profonda. La composizione di ciascuna inquadratura, i movimenti della macchina da presa, gli stacchi, gli inserti sonori, ambientali, verbali e musicali, denotano investimenti che vanno al di là del tema grave collettivo. Il saper coniugare, con raro senso umano qualcosa di indicibile che investe il sé e gli altri nel contempo, è qualcosa che non si impara, non si eredita e non spiega facilmente ma tira fuori al momento opportuno con sensibile cognizione di causa, a livello conscio o inconscio.

CENTO CROCI SU UN FOGLIO DI CARTA

Pubblichiamo di seguito un breve estratto del romanzo «Pane e amianto. Girotondo di una città sopra un milione di vite» (Poiesis Editrice, 2013, pp. 9-10) di Giuseppe Armenise, per anni redattore de «La Gazzetta del Mezzogiorno», il quale ha seguito sin dalla prima denuncia, nel 1995, il caso delle morti legate alla discarica di amianto nell’ex fabbrica Fibronit di Bari.

Squilla il telefono.
- Ne è morto un altro.
Non oso chiedere di chi si tratti. Tanto, dolente, la risposta arriva comunque.
- È Giovanni Maliardi, uno del reparto tubi monolitici.
- La diagnosi?
Mesotelioma pleurico.
- Hai idea di cosa voglia dire?
Dall’altro capo del telefono nessuna voce rompe l’inadeguatezza. Troppo sofisticato, anche un po’ cinico tenere la contabilità. Una, due, cento croci su un foglio di carta. Se Dio giocasse a dadi sarebbe una partita persa in partenza. Ma sarebbe sempre giocare. Per perdere tutto e poi non avere più ragione di esistere. Nel nome dell’umanità negata. Invece il senso è nella statistica. Una, dieci, cento croci su un foglio. Chi ha lavorato con chi. Chi fumava. Chi beveva. Statistica e dadi, il modo più efficace per far saltare il conto. Il banco ha il mesotelioma pleurico dalla sua. Una malattia con pochi fattori di determinatezza. In questi casi si gioca bendati. La posta in palio è altissima. E non parlo della vita. Sarebbe troppo facile giocarsela, quando è l’unica cosa che resta.
- Ci vieni domani?

Avrei voluto dire di no. So quanto è vano mostrarsi consolatori in occasioni in cui si commemora un lutto. Vivo però in una città che in fondo è un grande paese. A Bari, per chi è avanti con gli anni, i funerali sono una delle poche occasioni di socialità. Ci si ritrova, ci si abbraccia, ci si saluta. Ci si conta. Mi chiedo: ho ancora voglia di tenere per me il conto delle croci? Lei è sempre lì, fuori dalla finestra, e non mostra alcuna compassione. È il segno che all’indomani avrebbe voluto ci fossi anch’io davanti all’ultima bara. Disperato come il più disperato degli innamorati. Testimone di un tempo lanciato a rotta di collo verso l’ineluttabile. Se avessi potuto tenerle le mani, le avrei detto: “Non è così che si soffre. Bisogna darsi”. Sragionavo, però. E lei lo sapeva bene. Ci aveva visti felici. E felici aveva fatto in modo che sposassimo la causa del progresso, in un languido abbraccio di vite fiduciose. Ci siamo sporcati d’amore fino alle ossa. E dopo anni lunghi e senza più sorrisi siamo sopravvissuti in pochi e senza ancora sapere come ripulirci. L’ultimo lancio di dadi lo riservo al giorno in cui lei, la fabbrica, non ci sarà più. Lasciandomi da questa finestra. So che accadrà. La mia maledizione è restare. Non sarò io ad andarmene per primo.

Privacy Policy Cookie Policy