L'intervista

«Italia, Sud e cyber-futuro: Calvino indica la strada»

Leonardo Petrocelli

Prencipe, rettore Luiss, domani a Bari con il suo «ll visconte cibernetico»

Corre l’anno 2004. Samantha Cristoforetti, prima donna a esordire nello spazio, decide di portare sulla Stazione Orbitante Palomar di Italo Calvino. Non una semplice «lettura fra le stelle» e nemmeno una scelta casuale. L’autore delle Città invisibili, infatti, fu uomo di lettere ma anche di scienza. A suo modo, certo, ad esempio divorando libri di informatica, ma non senza rinunciare a fornire il suo contributo alla causa. Ne sono plastica testimonianza le celebri Lezioni americane così come dimostrato da Andrea Prencipe e Massimo Sideri nel volume L’innovatore rampante (2022) e come ribadito dagli stessi nell’ultima fatica a quattro mani: Il visconte cibernetico (2023) che proprio Prencipe, pugliese d’origine, rettore dell’Università Luiss e docente di organizzazione e innovazione, presenterà domani sera a Bari (Circolo Unione, ore 20.30) dialogando con il Presidente dell’Autorità Portuale del Mare Adriatico Meridionale, Ugo Patroni Griffi. Calvino e l’innovazione, Calvino e il futuro, quasi una storia d’amore che balla fra lettere e numeri.

Professor Prencipe partiamo dall’inizio: cosa c’entra Calvino con l’innovazione e la rivoluzione digitale?

«Calvino fu un contemporaneo del futuro. Non un veggente, certo, ma sicuramente un visionario. Questo emerge chiaramente nelle Lezioni americane che si concretano in sei memorie per il futuro. Non sono un letterato, mi interesso di altro, ma sono concetti che possono essere contestualizzati altrove».

Proviamo a calarli nella realtà di cui lei si occupa. Qual è il passaggio chiave?

«L’idea che l’innovazione vive di tensioni tra gli opposti. Ad esempio lentezza e velocità. Quando è scoppiata la pandemia il vaccino è stato messo sul mercato in tempi record ma quella azione così tempestiva è stata il frutto di anni e anni di ricerca lenta. Altro caso: l’innovazione prevede il coinvolgimento di attori molteplici che però devono essere coordinati per generare un servizio o un prodotto unico. Come detto, ci si muove sempre fra gli opposti».

Questo è il «metodo Calvino», quindi. Come lo si applica all’intelligenza artificiale?

«Mettendo subito in campo un ossimoro: è una grande opportunità che porta con sé grandi rischi».

Questo è certo, ma dov’è il punto di svolta?

«Nella capacità di governare il fenomeno. È tutto qui. Se si riesce a farlo si possono cogliere tanti frutti in moltissime professioni. L’Ia può essere preziosa per sviluppatori di software, giuristi, docenti, medici. Le opportunità sono enormi».

Ma gli effetti possono essere disastrosi. Senza immaginare scenari apocalittici, non teme che delegare all’Ia possa «appiattire» l’essere umano e impoverirne le conoscenze?

«Prendo ad esempio un docente. Deve fare una lezione e decide di farla sviluppare a Chat Gpt»

Ecco, appunto. Non è un appiattimento?

«Un attimo. Il docente deve comunque elaborare una domanda che non è soltanto la mera stesura di una stringa di parole. Bisogna inquadrare bene il problema, formulare correttamente il quesito. Direbbe Calvino che l’ars interrogandi è uno dei “gelosi attributi degli esseri umani”».

D’accordo, la domanda. Ma le risposte? L’intelligenza artificiale «pensa» meglio dell’uomo?

«Mettiamola così: la creatività, gelosamente umana, è “divergente” perché spinge sulla originalità delle combinazioni. Mentre il processo sviluppato dall’Ia è “convergente”, cioè si basa sulla ricerca della massimizzazione delle probabilità che due o più concetti siano stati già connessi. Lo spartiacque è questo. Ma ripeto, al di là dei tecnicismi, l’importante è pensare a come governare il fenomeno».

Quesito secco, allora: come si governa?

«Comincio dal mio ambito: bisogna rinnovare i processi di formazione. Lo specialista non basta più. Serve integrare le competenze verticali con quelle orizzontali, cioè generaliste. Ancora un ossimoro: i generalisti specializzati».

Andiamo avanti.

«Evitare gli eccessi di regolamentazione che soffocano lo sviluppo e, infine, interrompere quel circolo vizioso che ci porta ad affrontare i problemi del presente e del futuro con soluzioni del passato».

Altra lezione calviniana: bisogna disobbedire?

«Sì, esatto. La scienza è distruzione creatrice come diceva Joseph Schumpeter. Da una parte distruggo, dall’altra creo. L’imprenditore deve avere visione, coraggio. Deve saper concretizzare ed eseguire».

Quando si parla di questi temi, l’Italia sembra davvero il «visconte dimezzato». E non nel senso della tensione fra gli opposti, ma perché sembra sempre che corra con una gamba sola. Qual è il problema?

«Il punto è che non esiste l’innovatore solitario. Ci sono ecosistemi complessi con tanti attori: università, centri di ricerca, risorse che arrivano dal pubblico».

Traduco: anche Elon Musk prende soldi dallo Stato.

«Il problema è che in Italia questo ecosistema non funziona benissimo ma possiamo farlo funzionare meglio, partendo dalle tante eccellenze universitarie disseminate sul territorio, tra cui quelle pugliesi. Il punto è legare l’ecosistema della ricerca con quello dell’imprenditoria».

Non si parlano?

«Si parlano poco anche perché usano linguaggi diversi come è giusto che sia. E tuttavia la collaborazione è essenziale».

Che ruolo possono giocare le risorse del Pnrr?

«I tecnopoli sono un frutto tangibile di questo genere di investimenti: sono spazi fisici che permettono sinergie innovative. La strada è questa».

Vale anche per il Mezzogiorno?

«Naturalmente sì, non è separato dal contesto. E tuttavia il Sud ha una grande opportunità: ripensare le proprie istituzioni da una prospettiva innovativa. Le risorse per farlo ci sono e non mi riferisco solo al Pnrr. Ma penso anche a noi accademici e alla necessità di far un passo indietro, mettersi in gioco in modo diverso collaborando con le imprese per dare un contributo allo sviluppo del Paese. Certo così qualcosa si perde, ma si vince solo insieme».

Privacy Policy Cookie Policy