Il libro
In «Amarcord Fellini» di Oscar Iarussi, il frainteso e taciuto del regista riminese
Il libro è stato presentato nella serata dello scorso mercoledì 27 settembre, presso la libreria “Il Ghigno” di Molfetta, nell’ambito del festival della letteratura “Storie Italiane”
MOLFETTA - Una serata di gran pregio quella del ventisette settembre scorso, nell’iridescente e resistente libreria “Il Ghigno” di Molfetta, le cui sedute hanno ospitato il critico cinematografico, saggista e direttore emerito de “La Gazzetta del Mezzogiorno” Oscar Iarussi, in dialogo con l’autore teatrale e televisivo Francesco Maria Asselta, circa il suo ultimo libro “Amarcord Fellini – L’alfabeto di Federico” (pp. 239, euro 16), edito nel 2020 per i tipi de “Il Mulino”.
Una curiosa promenade il libro, una passeggiata fra i «come», i «perché», i significanti e i significati delle pellicole, dunque dell’esistenza stessa del regista italiano più conosciuto al mondo, «amore adulto» di Iarussi che con maestria da giocoliere e perizia d’intarsiatore racconta e coinvolge l’ascoltatore, inducendolo a farsi lettore. Ed eccoci tesi all’ascolto e alla riflessione sulla tragicità de “La dolce vita” (1960), sul suo finale drammatico oltre il simbolo, irredento, montato sull’incomunicabilità, con quella mostruosa razza di mare tirata a riva, sguardante, giudicante, che a noi tanto ricorda il rombo di straordinarie dimensioni «donato» all’imperatore Domiziano nella “Satira IV” di Giovenale. Ma quella del film Palma d’oro al tredicesimo Festival di Cannes è chiaramente una Roma diversa, tutt’altro che antica, forse ancor più fastosa e meschina di quella dei «Flavi», col «Colosseo quadrato», piena di neon («neonata» col «boom» economico, eppure già in declino), frenetica, chiassosa, abietta, ad un tempo poverissima, riluttante la salvezza, con Marcello Rubini (Mastroianni) dissipato capintesta.
Restando nella Capitale, giungiamo poi a ricordare quel mascalzone, quel cialtrone di Fernando Rivoli (Sordi) e la disperazione dell’appena maritata e affetta da una certa forma di bovarismo Wanda Cavalli (Bovo), autentica protagonista de “Lo sceicco bianco” (1952), nello scoprire che la sua «vera vita», «quella del sogno», quella degli esotici racconti illustrati della Vellardi (quasi un alter ego di Salgari), non è nient’altro che una menzogna e che «a volte il sogno è un baratro fatale», con tanto di controcanto comico tutto felliniano alla cornetta del telefono («[…]b come Bologna?»). Si racconta, procedendo, di Riccardo Fellini, fratello minore di Federico, uno de “I vitelloni” (1953): quelle giovani, simpatiche e tribolate canaglie del riminese sballottate fra i rituali (difatti Fellini fece dell’antropologia uno dei pilastri del suo cinema, e si pensi, ad esempio, al «Segavecchia» di “Amarcord”, che segnava, quale rito contadino, la fine dell’inverno e l’inizio della primavera), la lingua, gli eventi, i modi d’essere, i valori, la fin troppa quiete e stagnazione del «borgo», e l’ineludibile desiderio di partire, di fuggire alla ricerca di una vita migliore, di un lavoro degnamente retribuito, del successo; sogno avvertito, restando in provincia, come irrealizzabile (e pare non essere cambiato proprio nulla, oggi).
Quindi le donne del regista visionario, dalla sua immensamente amata Giulietta Masina ad Anita Ekberg, la pineta di Fregene, il mare di Anzio (difatti, il Grand Hotel di “Amarcord” nient’altro era se non il casinò di Anzio), Flaiano e Pinelli, i suoi studi su Jung e sulle rivelazioni cui la vita inopinatamente talora si concede, il suo essere poeta cinematografico e neologista (si pensi a termini quali «amarcord», nella contesa di senso fra «mi ricordo» in romagnolo e «amaro Cora» come obiettava Tonino Guerra, «vitellone», «paparazzo» etc.), il Fellini bugiardo… Il suo amore per la verità, la quale non poteva partorirsi dalla nuda realtà, come nella famosissima scena del «Rex» in Amarcord, il transatlantico (che pur mai viaggiò nell’Adriatico, se non per andarvi a «morire») simbolo della grandezza tecnica dell’Italia del regime, in verità figura dell’altrove, delle possibilità inesplorate, della fuga, dell’occasione, della libertà agognate, riprodotto negli studi di Cinecittà con un immenso pezzo di compensato cosparso di luci, «un gran pavese di luci», una sirena fuori campo e degli idranti gettanti schiuma su di un mare ricostruito con teloni di plastica ondeggianti. E il gioco è fatto. Eppure, l’emozione è la stessa, anzi è più forte.
Lo spettatore si rende conto dell’artificio, dunque è quasi naturalmente portato a porre maggiore attenzione agli accadimenti, al senso, al fulgore emotivo delle immagini, ancora una volta vinto e avvinto dal genio felliniano. E potremmo continuare a scrivere, ma poi non leggereste il libro che invece va divorato da capo a coda. Iarussi riesce con destrezza a raccontare un personaggio complicatissimo, colmo di contraddizioni, erotomane, enigmatico, impegnato, elegante, straordinario; ci svela l’arte del maestro del cinema quale interpretazione ed esattissima espressione dei cambiamenti storici, politici, sociali, culturali dell’Italia del secondo Dopoguerra, del passaggio da un’Italia che fu a un’Italia che era ed è.
Un occhio peraltro ipermetrope quello di Fellini, così accurato, anticipatore, tremendamente sensibile, appannaggio solo dei più grandi. Insomma, se siete alla ricerca di uno sguardo lucido sul regista dalla sciarpa di lana rossa e sul suo magnifico «creato», di un dizionario per tradurne le idee, questo libro «dalla A di “Amarcord” alla Z di “Zampanò”» certamente vi farà luce laddove, ad un primo approdo, potrebbe esserci foschia o buio.