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La vita come sorgente nelle liriche di Hugo Mujica

 
Claudio Mezzina

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Claudio Mezzina

La vita come sorgente nelle liriche di Hugo Mujica

Il poeta argentino: «Il vento è l’aspetto creatore di Dio»

Martedì 29 Agosto 2023, 10:10

19:03

Se fossimo chiamati a dire Hugo Mujica in una manciata di battute, cercheremmo di fondere in un unico profilo la levità della piuma e la transuranica saggezza di chi del lume di un cerino accoglie, con amore tracimante, anche l’ombra. Mujica nasce a Buenos Aires nel 1942. Suo padre, operaio e sindacalista dalle idee anarco-socialiste, perde la vista in un incidente sul lavoro quando lui aveva appena sei anni. A tredici comincia, per contribuire all’economia domestica, a lavorare in una fabbrica per la produzione del vetro e, al contempo, si appassiona alle Belle Arti e porta a conclusione gli studi liceali. A diciannove anni, lascia l’Argentina alla volta di quel tumulto fiammeggiante che era la New York e, in particolare, il Greenwich Village degli anni ’60. Lì studia e intraprende, nel barbaglio coloratissimo e allucinante della beat generation, la strada della pittura. Conosce Allen Ginsberg, Timothy Leary e attraversa l’effimera quanto maestra esperienza dell’LSD. Poi, l’incontro, avvenuto proprio grazie a Ginsberg, col Guru Satchitananda, guida nel guado da una vita alla vita. Diretto a Boston proprio con quest’ultimo per una conferenza, immediatamente dopo il fragore di Woodstock, Mujica incontra il silenzio in un Monastero Trappista. Saldo al voto per sette anni, il silenzio si farà matrice della sua poesia. Una poesia tremendamente accurata, liberata dal grave del superfluo, capace di trattenere in sé il Creato, la sua perpetua quanto misteriosa rinascita, con possanza surreale. Versi che risalgono il corso delle cose per afferrarne l’origine, che dicono di un uomo che del nulla ha fatto opulenza, del passo, soffio nel vento: «[…] il vento/ la nudità in ciò che viene e sfugge:/ l’orma che al cancellare traccia» (Raffaelli Editore, Hugo Mujica, “Poesie scelte”, 2008). Ascoltatolo in dialogo con Ruggero Savinio nell’ambito della tre giorni culturale “I giorni del non detto”, tenutasi a Roma nello scorso luglio e diretta da Augusto Ficele e Zingonia Zingone, abbiamo avuto l’opportunità di porgergli qualche domanda (si ringrazia Zingonia Zingone per la cura della traduzione):

Lei è nato a Buenos Aires, ha abitato a New York, per sette anni in un Monastero Trappista nei pressi di Boston, in Francia… Come ha vissuto questi spostamenti da città a città, questi repentini cambi di rotta, i così diversi momenti della sua vita?

«New York per me è stata l’incontro con me stesso. Da solo per la prima volta a diciannove anni, in una città mostruosa nelle dimensioni che, figurarsi, ancora non era la New York di adesso… C’erano ancora lotti vuoti, lotti disabitati, che poi sono stati edificati… Ma quello che, soprattutto, ho trovato lì è stata la libertà. E quell’epoca non era ancora questa, in cui è una cosa comune. In quell’epoca, era la prima volta che prendevo la metropolitana e accanto a me c’era un indiano, di fronte un nero, ma tutto questo non si vedeva nel mondo. New York era il luogo in cui il mondo confluiva. Quelle cose, fuori di lì non si vedevano. A me ha dato molto di quello che sono oggi, perché ho vissuto lì dai miei venti ai trent’anni circa, che è quando uno più o meno acquisisce un volto, un’identità. È un posto dinamico, che non si ferma, creativo e distruttivo al contempo, e ha mille mondi: potevo essere un hippie o un borghese o altro… Cioè si convive con una grande velocità che non si tocca, ma ha quello… Credo che, anche adesso, sia l’unica città moderna, perché se io vengo in Europa, vengo a vedere ciò che è antico, se vado in Messico vado a vedere l’impero Azteco, se vado in Perù è per vedere l’oro dei Gesuiti, a New York vado per vedere come tutto cambia».

Qual è la differenza fra Mujica di trent’anni fa e quello di oggi, a livello spirituale, di crescita umana? Cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa?

«Non credo di essere cambiato… Credo che mi sia modellato, ma ci sono due o tre cose che da sempre mi interessano, che sono la bellezza, la cultura e poi tutto questo diventa spirituale, ma mi rendo conto che ci sono da sempre. Si è andata modificando la materia con la quale ho scolpito me stesso. Ma sono le stesse due o tre cose e soprattutto la libertà, la ricerca costante della libertà».

I suoi versi chiedono la completa incarnazione dell’anima, ma per giungervi si rende necessario il togliere. Ha più accettato il vuoto o lo ha accolto, nella vita dunque nella poesia?

«Io ho accolto tutto, giacché la prima cosa che ho accolto è stata la vita. Da lì in poi è tutta accoglienza. Dal momento in cui ho accolto me stesso, che non esistevo, tutto il resto, nel momento in cui sono venuto al mondo c’era già, era tutto fatto. Quindi si tratta di dire sì o no a ciò che già c’è. Per me è “l’altro” a configurare me».

C’è stato un momento in cui è riuscito a sentirsi vicino a Dio? Cosa si sente?

«Si sente un’appartenenza. Ma riguardo la parola “vicino”… È una vicinanza, ma a cui non arrivi mai. È come girare intorno a qualcosa che avverti e si sottrae. Io Dio non l’ho mai dato per scontato. Dico: “Credo”, ma non so in cosa credo. Ma è una relazione che non è mai possesso, né da parte sua né da parte mia. È uno sfioramento, un avvicinarsi, poi domandarsi “dove sono stato?” e poi tornare… È vita! E la vita non è un sostantivo, una sostanza. Un sostantivo è un nome verbale. Qui, invece, niente è solido. Quindi è partecipare a quel qualcosa che accade, che si va facendo ma come mistero, mai come chiarezza completa».

Che significato dà alla parola «vento» nella sua poesia? Cosa è il vento?

«È tutto. Nel libro della Genesi c’è che si spalanca il Caos, da intendersi come una bocca che si apre, e da lì esce un alito, un vento, e dopo viene la parola. Dunque, per me la vita è come tornare a quel vento che ancora non è configurato come linguaggio, perché quando si fa il linguaggio è già tutto più o meno fatto. Allora per me quel vento è l’aspetto creatore di Dio, perché lui soffia e noi siamo. E mi piace il vento perché è imprendibile. E in una poesia dico che - questo sì che l’ho imparato - io prima pensavo che il vento passasse e adesso so che il vento è sempre in arrivo. Penso che in quell’idea la mia vita abbia preso un’altra piega; perché prima avevo l’immagine della vita come di un cammino, e adesso ce l’ho come di una sorgente. Tutto sta venendo già adesso, non bisogna andare da nessuna parte per trovare…».

Continua o ha ripreso a dipingere?

«No, mai più».

C’è un motivo?

«Sì. La pittura mi ha lasciato. Un giorno ho finito un quadro e… Quando finisci un quadro è un orgasmo, sei tutto lì… E ad un certo punto, ne ho finito uno e non ho più sentito niente. E mi sono reso conto che era la pittura che non mi esprimeva più. Perché posso sempre disegnare ma meccanicamente, non ci sono dentro io».

Pensa che ci sarà un giorno in cui smetterà di scrivere?

«Può essere! Cioè a me piace sempre pensare alle cose che faccio come a delle figure. Non so se la scrittura possa lasciarmi, ma sì che spio per vedere se arriva un’altra forma di vita, che potrebbe essere anche un’altra cosa». 

Un paesaggio, una città, qualcosa che non ha ancora visto e vorrebbe vedere.

«Conosco moltissimi posti, ma due posti che vorrei vedere sono San Pietroburgo, per Dostoevskij, e la Calabria e la Sicilia che non conosco e sono le mie radici. Mio nonno e mia nonna erano una calabrese e l’altro siciliano, ma non ricordo mai chi dei due fosse calabrese e chi siciliano. Loro sono partiti dall’Italia e, quando sono arrivati nelle Americhe - mi raccontavano -, al porto c’era un uomo che gridava “venti di qua, gli altri di là” e così metà sono andati negli Stati Uniti e metà in Argentina. Era così, come prendere l’autobus, se c’era posto salivi in barca e andavi».

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