Per varie ragioni il Premio Campiello è diverso da altri premi che apparentemente funzionano allo stesso modo, cioè attraverso una fase eliminatoria che produce un piccolo insieme di finalisti, e a partire dalla quale viene votato un romanzo vincitore.
Nei prossimi giorni la cinquina del premio, cioè i cinque autori finalisti, passerà per la Puglia (il 12 luglio alla Rotonda Tricase Porto, il 13 al castello Gallipoli) nel suo tour di presentazione che la sta portando da un capo all’altro del Paese. L’occasione è utile per fare il punto sul significato e sullo spirito di questo premio.
La differenza principale tra il Campiello e i suoi vari omologhi sta, per volere dei fondatori – gli industriali veneti che gli dettero vita sessant’anni fa, e che ancor oggi lo organizzano – nella peculiare combinazione delle due giurie che selezionano rispettivamente i cinque finalisti e, tra essi, il titolo vincitore. La prima è una giuria di una decina di Letterati, cioè di lettori professionali (non necessariamente studiosi di letteratura, ma comunque persone che s’impegano a un giudizio motivato e non puramente epidermico sulla qualità dei libri esaminati), che restano in carica per un certo periodo – variabile ma pluriennale – e dunque osservano da una postazione stabile e tecnicamente attrezzata l’evoluzione della narrativa contemporanea. La seconda è una giuria di trecento Lettori (ossia di lettrici e di lettori) che muta interamente ogni anno e riflette nella sua composizione quella del pubblico più vasto e indistinto di chi legge senz’altri obiettivi che il piacere personale o la privata edificazione.
In questa combinazione peculiare risiede – o dovrebbe risiedere – il senso di alcuni caratteri che si vogliono da sempre peculiari di questo premio, e distintivi. Il primo è l’indipendenza dagli influssi delle grandi case editrici e in generale dai gruppi di pressione che talora condizionano le vicende di altri premi letterari: indipendenza assicurata dal fatto che nessuno dei Letterati risponde del proprio operato ad alcuna lobby (dovendolo spiegare solo ai suoi pari, di solito piuttosto gelosi della loro autonomia); e che i trecento lettori che scelgono il vincitore nella cinquina sono sostanzialmente irraggiungibili da chiunque volesse influenzarli, visto che cambiano ogni anno e vengono resi noti solo a giochi fatti, cioè a votazione avvenuta.
Il secondo carattere, più discontinuamente attestato ma spesso emergente nella storia del Campiello, è la ricorrente tendenza a cercare, tra i romanzi pubblicati in Italia di anno in anno, almeno alcuni titoli che pur essendo potenzialmente graditi al pubblico dei lettori non professionali, si discostano dalle scelte più scontate e più commercialmente prevedibili. Spesso, insomma, la giuria dei letterati si sforza di non assecondare le logiche del successo mercantile, andando in cerca di titoli che la sensibilità di lettori meno avvertiti magari non coglierebbe subito, nonostante il loro valore letterario. Ne risultano spesso cinquine nelle quali libri cui incidentamente arride un buon successo di pubblico e una certa eco mediatica si associano ad altri il cui apprezzamento richiede una lettura poco più paziente o un palato più fino.
La cinquina prodotta quest’anno è, come sempre negli ultimi anni, piuttosto variegata, e rappresentativa degli orientamenti diversi e non sempre convergenti che hanno guidato la giuria dei Letterati nella loro scelta, avvenuta come al solito per mezzo di una votazione palese e pubblica, svoltasi a Padova a fine maggio. Una votazione dall’esito imprevedibile fino all’ultimo minuto, su cui inevitabilmente (ma sanamente) influiscono solo gli orientamente individuali dei giurati, i loro pregiudizi ideologici ed estetici, ma anche la loro disponibilità a motivare e a discutere criticamente scelte e preferenze.
Difficile trovare un unico filo conduttore o una logica coerente e calcolata nella pleiade costituita dai romanzi di Fabio Bacà, Nova (Adelphi: indagine straniata della mente di un medico e della ferocia degli uomini), di Antonio Pascale, La foglia di fico (Einaudi: rilettura di una vita sotto la prospettiva, o sotto l’ombra, di piante e alberi in cui essa si riflette o si rifrange); di Daniela Ranieri, Stradiario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie: catalogo stilisticamente ipersollecitato di una disastrologia esistenzale e sensoriale prima ancora che erotica); di Elena Stancanelli, Il tuffatore (La Nave di Teseo: lettura della storia recente dell’Italia e dei suoi modelli umani e civili attraverso la figura paradossale di Raoul Gardini); e di Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti (Sellerio: parabola della vita, della fede e della morte degli uomini attraverso lo sguardo di un animale). Ai cinque si propone ora un giro d’Italia – appassionante, ma anche defatigante : quest’anno si stende da Bolzano a Matera –, posto tra la loro selezione e la scelta finale di chi vince (scelta che sarà resa nota il 3 settembre a Venezia). Il suo senso è anche di farli incontrare e interagire con un pubblico nel quale gli ignoti trecento lettori, sparsi in tutta Italia ma ovviamente dissimulati, possono mescolarsi se vogliono incontrare, assieme ai libri in gara, anche i volti e le voci di chi li ha scritti.