La memoria
Da Ostuni al Vajont, parla Peppino Carella, tra i primi soccorritori della tragedia
Sessant’anni dopo ripercorre le prime ore dopo il dramma, quando arrivò sul posto da militare
OSTUNI - È un Vajont che non passa e che ritorna nella memoria. Ricorda bene quanto accaduto a Longarone il 9 ottobre del 1963, quando arrivò da giovane militare a prestare soccorso dopo la rottura della diga del Vajont. È l’ostunese Peppino Carella - ora pensionato, ma ceramista e inventore a Ostuni della «Fiera del fischietto» - che si trovava lì per svolgere il servizio militare. Numerosi sono i ricordi di Carella, veterano che, da giovane militare, si è trovato ad affrontare il dramma di quei giorni d’ottobre di 60 anni fa, quando la frana del monte Toc si staccò, precipitando nel bacino artificiale sottostante della diga del Vajont e causando la tragica morte di 1.910 persone.
Carella ha sempre condiviso le sue esperienze di quei giorni, mantenendo vivo il ricordo di ciò che dovettero affrontare i militari soccorritori inviati dal Governo per fronteggiare quella devastante emergenza. Carella ha partecipato alla manifestazione per i cinquant’anni dalla tragedia, quest’anno non ha potuto partecipare, ma sa bene che un riconoscimento arriverà nei prossimi giorni dal sindaco di Longarone Roberto Padrin. La sua testimonianza rappresenta un importante contributo a preservare la memoria di un evento che ha segnato profondamente la storia e le comunità di Longarone, Castellavazzo, Erto e Casso e Vajont.
Cosa ricorda di quel giorno?
«Siamo stati chiamati in piena notte dal generale che gestiva il nostro settore, in mezz’ora dovevamo preparare tutto l’occorrente per partire perché, da quanto ci aveva raccontato, era successo qualcosa di grave. Da lì siamo partiti in elicottero alla volta di Longarone; c’era stata spiegata la tragedia... Era ancora buio... Non vedevamo nulla: solo fango e sentivamo i lamenti delle persone. Abbiamo preso contezza solo all’alba della tragedia. Noi abbiamo lavorato per diversi giorni e ci siamo ritrovati davanti a una strage, quasi 2000 le persone morte per cause dovute a un errore umano».
Ci sono dei dettagli che non dimenticherà mai?
«Eravamo diventati come robot, scavavamo giorno e notte. Ricordo bene la competizione che c’era tra i sopravvissuti per cercare i loro parenti; ci offrivano la grappa per andare a cercare i loro cari. Il ricordo indimenticabile è quello di una bambina bellissima, bionda con una catenina al collo; sopra c’era scritto il suo nome e cognome e la città di provenienza; molto probabilmente stava trascorrendo dei giorni di vacanza a casa dei parenti. L’altro ricordo impresso nella mia mente è quello dei feti delle donne incinte. In quello che restava dell’hotel “Poste” ritrovammo i corpi di tanti uomini che quella sera si erano radunati per vedere la partita della Nazionale. R chi dimentica queste fotografie che sono impresse nella mente? Ero giovanissimo, dopo 60 anni, rivedo ancora queste scene».
Questa tragedia le ha sicuramente segnato la vita, in che modo?
«Sono stato segnato molto da quel fatto e non riesco a parlare. Dieci anni fa sono stato ospite per i cinquant’anni a Longarone ed ho conosciuto il sindaco Padrin, che viene spesso ad Ostuni per le vacanze; proprio in quell’occasione ci siamo conosciuti e gli ho fatto vedere sia le foto che la benemerenza e la medaglia ricevuta. Ci siamo emozionati insieme; quello mi ha segnato, a distanza di anni ancora quel ricordo è vivo dentro di me».
Cosa senti di dire ai giovani che leggono questa intervista?
«Ai giovani dico di guardare avanti, ma anche indietro perché la tragedia che ho visto con i miei occhi è causa di un errore umano che non deve più accadere. Ecco perché mi rivolgo ai giovani dicendo: guardate avanti, ma soprattutto indietro e studiate per il vostro futuro. Servono poi delle politiche adatte affinché non si commettano più errori umani; si sapeva da tempo che il monte Toc avrebbe causato nel Vajont quella tragedia di cui oggi stiamo parlando. Alcuni giornali lo avevano anche scritto...».