Il 21 agosto 2017, quasi un decennio fa, la titolare di un noto ristorante barese si era vista sequestrare trenta chili di cozze dal dipartimento di prevenzione del servizio veterinario di igiene degli alimenti di origine animale della Asl Bari, perché ritenuti non tracciati in quanto privi di etichetta. I documenti, in realtà, erano semplicemente stati smarriti (poi ritrovati e prodotti), ma ci sono voluti otto anni e due gradi di giudizio per vedere riconosciuta la propria innocenza.
Per lei, tuttavia, l’accusa non era di avere nel ristorante prodotti ittici non tracciati, peraltro del valore complessivo di 50 euro, quanto di averli distrutti una settimana dopo il sequestro senza seguire le indicazioni della Asl. E così a marzo 2023, il Tribunale di Bari aveva condannato l’imprenditrice per «sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro»: il 28 agosto aveva smaltito le cozze di cui aveva la custodia, in modo però difforme - secondo la Procura di Bari - rispetto alle disposizioni date dalla Asl. Tre mesi di reclusione (senza pena sospesa) e 30 euro di multa. Qualche giorno fa la vicenda è approdata in Corte di Appello. I giudici, questa volta, hanno assolto l’imputata, assistita dall’avvocato Nicola Quaranta, «perché il fatto non costituisce reato».
I giudici d’appello hanno condiviso la tesi della difesa, ritenendo che la titolare del ristorante avesse agito «in buona fede». Nel provvedimento di sequestro delle cozze, convalidato due giorni dopo il controllo, la Asl aveva disposto «l’avvio alla distruzione del prodotto oggetto di sequestro sanitario mediante conferimento a ditta autorizzata per la raccolta dei sottoprodotti di origine animale», ordinando che le operazioni avvenissero «in presenza del personale» Asl, da informare preventivamente. L’imprenditrice, invece, non aveva avvisato la Asl (lo ha fatto dopo) e aveva smaltito le cozze incaricando autonomamente una ditta. Per la Corte, poiché i molluschi «erano comunque destinati alla distruzione» e «ragionevolmente, vista la loro deperibilità, si imponeva il sollecito smaltimento», la decisione di distruggerli senza prima allertare la Asl sarebbe stata presa «in buona fede».
Cinquanta euro di cozze, stando alla sentenza di primo grado, potevano costare alla donna 3 mesi di reclusione da dover scontare, visto che i giudici non avevano previsto neppure la pena sospesa. In appello il verdetto è stato ribaltato e quasi otto anni dopo è stato acclarato che quel comportamento non è reato.