Il processo
Japigia, sparò all’amante della madre: così il boss Mineccia rischia altri 17 anni
Il pluripregiudicato ai giudici: «confesso, aveva ferito l’onore della mia famiglia ma non volevo ucciderlo»
Rischia una condanna a 17 anni e 6 mesi il pluripregiudicato del quartiere Japigia Filippo Mineccia, esponente di spicco del clan Palermiti di Japigia, accusato del tentato omicidio del 53enne Nicola Girone e delle lesioni causate al 52enne Alfredo Morisco, del tutto estraneo alla contesa, reati pluriaggravati dal metodo mafioso, dalla premeditazione e dai futili motivi. La vicenda risale al 24 febbraio 2016. Girone - hanno ricostruito le indagini della Dda - aveva offeso la reputazione dei genitori di Mineccia e, per questo, doveva essere punito.
Inizialmente fu ipotizzato un regolamento di conti interni alla criminalità, poi smentito dall’esito delle indagini: Mineccia agì per rancori legati a vicende personali. Secondo il pm Fabio Buquicchio, però, lo avrebbe fatto pianificando l’agguato e usando l’unico metodo che certi contesti conoscono per risolvere le questioni: quello mafioso.
Nell’ultima udienza del processo prima della sentenza, prevista per il prossimo 9 luglio, è stato lo stesso imputato - con un passato da killer del clan - a raccontare come andarono le cose, confessando il delitto. Ha spiegato che girava sempre armato, su consiglio del suo amico Domenico Milella, ex braccio destro del boss Palermiti, ora collaboratore di giustizia. Ed era armato anche quel giorno, quando passando davanti ad una enoteca sentì Girone, che aveva avuto una relazione con sua madre, parlare della donna definendola «una poco di buono» e del padre «un gay». «Provavo vergogna - ha detto Mineccia - . Purtroppo, sul quartiere Japigia era diventata una voce ricorrente, sempre messa in giro da questa persona». Quando lo vide «istintivamente e preso dalla rabbia, decisi di spararlo alle gambe, puntando la pistola sempre verso il basso. Ma poiché non ero esperto di armi ed era la prima volta che sparavo, dovetti esplodere più colpi prima di rendermi conto di averlo effettivamente ferito alle gambe. Lo vidi saltellare per schivare i colpi e smisi di sparare solo quando mi resi conto di averlo ferito alle gambe, perché cadde a terra. Non volevo ucciderlo, né ferirlo, né ferire altri, ma ebbi la reazione di punirlo perché ero esasperato dalle maldicenze che costui aveva diffuso nel quartiere Japigia sulla mia famiglia, che spesso mi venivano riferite. Mi sentii ferito nell’onore della mia famiglia. Ho agito d’impulso perché volevo porre fine a quelle maldicenze, che mi riguardavano personalmente».
Lo stesso clan «si arrabbiò perché avevo rovinato la tranquillità del quartiere e mi disse che non avrei dovuto agire d’istinto, né con le armi, per un fatto familiare». A dimostrazione, secondo la difesa, che «la causale di questo episodio nulla ha a che fare con la mafia, nulla ha a che fare con l’attività illecita». Nella requisitoria, l’avvocato Nicola Quaranta ha chiesto la riqualificazione del reato da tentato omicidio in lesioni aggravate, l’esclusione delle aggravanti del metodo mafioso, dei futili motivi e della premeditazione, il riconoscimento dell’attenuante della provocazione e delle generiche prevalenti.
«All’epoca Mineccia - ha evidenziato la difesa - non era affiliato ad alcun clan, né formalmente, né informalmente. Era un criminale che si occupava di droga. Questa attività illecita la faceva con o per Domenico Milella, ma senz’altro non rappresentava nessuno». Dopo il ferimento, Mineccia si confidò con Milella, il quale - ha spiegato lo stesso «pentito» - ne parlò con il boss Palermiti e quest’ultimo spiegò al «socio» Savinuccio Parisi «che era una questione d’onore familiare, non era criminale, perciò è stato perdonato». «Il movente dell’onore c’è, ma non dell’onore mafioso» ha insistito il legale, ricordando anche le parole dei collaboratori, a partire da Milella, che ha spiegato che Mineccia «non voleva farlo fuori», «voleva solo gambizzarlo», «voleva dare un avvertimento, non voleva ucciderlo».