BARI - Fabio Giampalmo non voleva «intimorire fisicamente» il suo rivale, voleva ucciderlo. E lo ha fatto «assumendo una strategica posizione di guardia e mirando al volto» della vittima, forte della sua «pregressa esperienza» da pugile. Le motivazioni della Cassazione che hanno reso irrevocabile la condanna a 21 anni di reclusione per l’ex pugile 23enne non lasciano spazio a dubbi: la notte tra il 4 e il 5 settembre 2021, all’esterno del bar di una stazione di servizio sulla strada provinciale tra Modugno e Bitonto, Giampalmo aggredì a pugni Paolo Caprio, imbianchino 40enne di Bitonto, morto dopo aver battuto la testa a seguito della caduta per i colpi sferrati in pieno viso, consapevole di ucciderlo.
«ISTINTI VIOLENTI» «La condotta perpetrata ai danni della vittima - scrivono i giudici della Suprema Corte - non fu altro che l’occasione e il pretesto per dare sfogo ad istinti violenti», anche perché «la ragione che ha portato l’imputato ad aggredire» il 40enne «con tale violenza era a dir poco banale. L’unica colpa di Caprio era da ricondursi alla scelta di portarsi presso il gazebo e di rivolgere un ipotetico sguardo all’imputato, percepito da costui come provocatorio: tali gesti - secondo la Cassazione - non sono in grado di costituire una ragione valida o quantomeno proporzionata al crimine commesso».
Giampalmo, in carcere da quel giorno, è stato infatti ritenuto colpevole di omicidio volontario (con dolo eventuale) pluriaggravato dai futili motivi e dall’aver commesso il fatto «attraverso l’uso di tecniche di combattimento tali da ostacolare la privata difesa», come contestato fin dalle prime indagini, coordinate dal pm Ignazio Abbadessa.
La volontà di uccidere La difesa insisteva perché venisse riqualificato il reato da omicidio volontario a preterintenzionale. I giudici spiegano i quattro motivi del rigetto: la pregressa esperienza dell’imputato che «avendo praticato la boxe dai 13 ai 17 anni ha agito nella consapevolezza che, scagliandosi con la massima intensità contro il volto di Caprio, questi sarebbe stato neutralizzato e sarebbe stramazzato al suolo, cadendo - non trovandosi in un ring - su una superficie rigida e con spigoli»; «la zona vitale» colpita, il volto; la «modalità con cui i colpi sono stati inferti, ben quattro pugni di cui conosceva la micidialità, secondo una tecnica replicabile solo a chi conosce le tecniche fondamentali di combattimento, tanto da assumere una posizione di guardia e mantenere una certa distanza dalla vittima, in modo da sferrare pugni alla massima potenza»; il comportamento dopo il delitto: «una volta sferrati i colpi micidiali e pur avendo avuto modo di percepire che il rivale era caduto inerme al suolo, si allontanava con freddezza, senza mostrare alcun tipo di preoccupazione».
La vittima indifesa I giudici poi, replicando alla tesi difensiva secondo cui i colpi inferti non sono vietati in assoluto nelle attività di combattimento, dicono al contrario che proprio «i colpi eseguiti dall’imputato sono categoricamente vietati al di fuori del ring, poiché, essendo finalizzati al ko tecnico dell’avversario, rappresentano un rischio per l’incolumità». A ciò si aggiunga che quei colpi furono sferrati contro una persona indifesa. E questo, spiegano i giudici, è dimostrato dal fatto che Giampalmo, «particolarmente esperto nell’arte del combattimento, improvvisamente colpiva la vittima, la quale non era vigile o pronta nell’attuare anche una minima difesa poiché colta di sorpresa». La Cassazione, dunque, evidenzia come «si possa affermare che l’imputato non si sarebbe trattenuto neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento morte». Nella sentenza i giudici parlano infatti di «estrema lucidità e spregiudicatezza con cui l’imputato ha agito, sintomatiche di una grave disinvoltura criminale», peraltro senza «manifestazioni di resipiscenza per quanto accaduto».
Nel processo erano costituite come parti civili le parenti della vittima, moglie e figlia minorenne, madre e tre sorelle, assistite dagli avvocati Massimo Roberto Chiusolo e Rossana Fallacara.