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Bari, l’Antimafia impugna le assoluzioni: «Proiettili, altro che fuochi d’artificio»

 
Isabella Maselli

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Isabella Maselli

Bari, l’Antimafia impugna le assoluzioni: «Proiettili, altro che fuochi d’artificio»

La dda di Bari ha fatto ricorso in Cassazione contro la sentenza sugli omicidi e le «stese» del 2017 nel quartiere Japigia tra i clan Busco e Palermiti

Domenica 30 Giugno 2024, 13:17

BARI - Quello di Gelao era «un omicidio strategico per l’esistenza e l’espansione del gruppo» criminale capeggiato da Antonio Busco, «sia perché era una vendetta rispetto all’omicidio Barbieri, sia perché colpiva i vertici del clan Palermiti, con un’azione di forza tesa a dimostrare le ambizioni del gruppo Busco».

A conferma di questa lettura dei fatti avvenuti nel quartiere Japigia nella primavera 2017, quando in tre agguati consecutivi tra gennaio e aprile, furono uccise tra persone in un botta e risposta tra clan per la gestione del traffico di droga, ci sono «l’infinità di vendette e ritorsioni» nei confronti di Busco e del sodale Giuseppe Signorile «realizzati pacificamente» secondo la Dda di Bari dal clan Palermiti-Parisi «con la chiara finalità di allontanarli definitivamente dal quartiere Japigia, nell’ottica di una sorta di “epurazione” dei nemici».

Sono alcune delle tesi che i pm Antimafia Fabio Buquicchio, Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano, con la Procura generale, hanno sostenuto nel ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bari che a novembre scorso ha smontato alcuni tasselli del puzzle messo insieme dalla Dda sulla primavera di sangue del 2017. Il processo è quello sui due agguati mafiosi del 6 marzo e del 12 aprile 2017, nell’ambito della faida (iniziata il 17 gennaio con l’omicidio del pusher Francesco Barbieri) tra il clan Palermiti e il gruppo criminale capeggiato dal «traditore» Antonio Busco per il controllo del narcotraffico: nel primo fu ucciso il pregiudicato Giuseppe Gelao e ferito Antonino Palermiti, nipote del boss Eugenio, in risposta al delitto Barbieri; nel secondo morì il pregiudicato Nicola De Santis, autore dell’agguato di marzo (di cui si è autoaccusato il collaboratore di giustizia Domenico Milella, ex braccio destro del boss Eugenio Palermiti). I giudici hanno assolto i due presunti esecutori materiali dell’omicidio Gelao, Giuseppe Signorile e Davide Monti, e anche i sodali del clan Palermiti che rispondevano delle cosiddette «stese» in stile camorristico.

I pm, che hanno impugnato le assoluzioni di 16 imputati, contestano la «inattendibilità» che la Corte barese ha attribuito alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sostenendo che le incongruenze nei diversi racconti dipenderebbero dal fatto che i «pentiti» dopo aver «ricevuto la confidenza fondamentale» sul coinvolgimento di Signorile nell’omicidio Gelao, «non abbiano fatto caso ad altri aspetti. È notorio - dicono i pm - che fare troppe domande su cose così delicate non è opportuno, perché desterebbe sospetti di eccessiva curiosità prossima alla delazione. Regola della camorra prevede che ci si deve limitare a ricevere la confidenza».

Altro elemento a sostegno della responsabilità di Signorile e Monti (quest’ultimo trovato peraltro positivo allo stub) deriva dalle ritorsioni nei loro confronti nei mesi successivi al delitto: «si ritiene pertanto una omessa motivazione - dicono i magistrati antimafia nel ricorso - non ritenere elemento fortemente indiziante il dato di fatto, pacifico, della convinzione di tutto il clan Palermiti della loro responsabilità e la loro pervicace volontà di attentare alle loro vite, di distruggere i loro beni laddove l’unico motivo ragionevole è che li si ritenevano parte del commendo che aveva ucciso Gelao, fraterno amico di Domenico Milella».

Ed è lo stesso Signorile, intercettato in carcere durante un colloquio con i famigliare, che ne avrebbe dato conferma, canticchiando una canzone napoletana per mandare un chiaro messaggio a Busco, sul quale pendeva una «taglia di 500mila euro» di cui «parlavano tutti, negli ambienti criminali e non». La canzone recitava: «sono trascorsi tre mesi (dall’omicidio De Santis, ndr), cosa aspetti a metterti in macchina, a venire a Bari e, se necessario, ad immolarti? Vuoi attendere che esco io o qualcun altro?».

C’è poi il capitolo delle «stese», le spedizioni armate nelle strade del quartiere. Secondo la Dda è «inverosimile, irragionevole e illogico», come ha sostenuto invece la Corte di Assise di Appello, che «nell’ambito di una guerra senza esclusione di colpi tra clan mafiosi, abbiano deciso di mobilitarsi in venti persone, tra cui alcuni degli esponenti più di rilievo dei gruppi criminali in questione, a bordo di almeno dodici moto, semplicemente per esplodere fuochi d’artificio, privi di alcuna forza intimidatrice nei confronti di soggetti abituati ad un utilizzo indiscriminato della violenza», evidenziando peraltro che a Bari «l’accensione i fuochi d’artificio è comunemente utilizzata per festeggiamenti di vario genere e non di certo che spaventare pericolosi personaggi della criminalità». Un gesto definito «ridicolo» che «avrebbe potuto compiere anche un bambino, senza una mobilitazione del genere».

Toccherà alla Cassazione valutare questi e altri elementi e decidere se le assoluzioni siano da annullare.

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