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«Bari tra 50 anni avrà il clima di Marrakech»: il monito dello scienziato Mancuso
«Stiamo ignorando l’ambiente. L’allarme climatico è alle porte, ma se ne parla troppo poco e troppo male»
BARI - La scienza oggi ci dice che «Bari tra 50 anni avrà il clima di Marrakech». Ma, Marrakech avrà quello del Sub Sahel (che già si sta spopolando) e il Sub Sahel, sempre che non si faccia nulla per invertire la rotta, non avrà più condizioni per ospitare la vita cioè un pezzo del pianeta, tra appena 50 anni, sarà inospitale e invivibile. L’allarme climatico è alle porte ma «se ne parla troppo poco e troppo male».
A dirlo, è il prof. Stefano Mancuso. Accademico dei Georgofili, insegna Arboricoltura e Coltivazioni arboree all’Università di Firenze, la scorsa settimana autore di una pacata lectio magistralis dai dati drammatici, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Bari dedicata al «Senso del limite». Il docente ha puntato il dito contro l’autolesionismo dell’homo sapiens che «ha perso di vista la sopravvivenza della specie».
L’Osservatorio europeo Copernicus dopo il nuovo record di caldo toccato a gennaio che ha registrato una temperatura media di 13,14°C mai registrata da quando si misura il clima del pianeta, ha lanciato un nuovo allarme: per la prima volta la Terra ha superato la soglia di 1,52°C di riscaldamento in 12 mesi consecutivi rispetto all’era preindustriale 1850-1900. Ma 1,52°C è una media. L’Europa si è già riscaldata di 2,2°, l’Italia di 2,4° e Bari di 3,6°C rispetto agli anni ‘60. «Due gradi di più sulla Terra richiedono grandi cambiamenti. È come se noi avessimo la febbre e noi a 38,5° non stiamo bene» ha detto efficacemente Mancuso.
Professore, tendiamo a rinviarlo ma il riscaldamento globale è già il nostro presente. Come affrontarlo?
«Innanzitutto, occorre comprenderlo. È un problema globale e sociale che richiede la conoscenza di molteplici parametri ma è anche un problema semplice da esprimere: è dovuto al fatto che le attività umane non tengono conto e non hanno mai tenuto conto di ciò che accade all’ambiente quando si utilizzano le risorse esclusivamente ai fini del nostro progresso. Ci sono diverse maniere per affrontare un problema così complesso. Il primo è capire innanzitutto che quello che stiamo facendo ha delle conseguenze, cosa che sembra banale a dirsi ma non sembra avere nessuna eco nell’opinione pubblica. Le persone non vogliono davvero sapere cosa sta accadendo ed è molto preoccupante».
Abbiamo perso il senso del limite?
«L’umanità ha dimenticato da tempo di avere dei limiti e a fronte di enormi progressi c’è stato uno squilibrio ambientale di cui dobbiamo avere conoscenza e di cui dobbiamo prenderci cura. Non abbiamo limiti nella nostra capacità di predazione e di alterazione del pianeta dal quale dipende la nostra sopravvivenza. Come agire? Sicuramente possiamo aggredire il riscaldamento globale con soluzioni tecniche, immaginando di tutto, diminuendo le emissioni di Co2 o piantando alberi, ma quello che è davvero importante è educare e in questo senso le università sono fondamentali. L’educazione è la maniera più radicale, profonda e importante per risolvere un problema e il nostro rapporto con l’ambiente è il problema più grande che l’umanità ha mai avuto nel corso della sua storia. Educando, abbiamo il mezzo e la potenza per fare la più grande rivoluzione possibile: cambiare le menti e una volta cambiate le menti i problemi si risolvono».
Ma le facoltà scientifiche dove si studiano il cambiamento e la mitigazione climatica sono poco scelte. Come far iscrivere più giovani?
«È una questione molto importante. Leggevo l’altro giorno le statistiche dei laureati negli Stati Uniti, in che cosa si laureano, e sono davvero dati sconfortanti: quasi il 70% si laurea in materie economico-finanziarie. Ora nessuno nega che l’economia e la finanza siano importanti però non è con quelle che potremo garantire la sopravvivenza del Pianeta. Poi c’è un’altra fetta significativa che si laurea in campo giuridico, quel che rimane sta fra le materie umanistiche e le scienze della vita: è sconfortante. Il problema ambientale lo si affronta da due punti di vista: della scienza dura che deve trovare delle soluzioni e del pensiero. Le facoltà umanistiche che per decenni sono state snobbate perché sembrava non avessero ricadute nel mondo reale, sono invece il futuro, in controtendenza con tutto quello che si potrebbe pensare. Ci sono colleghi che sono straordinari scienziati dell’ambiente e che vengono da una formazione umanistica. Ecco, per aggredire il problema climatico, dobbiamo fare di tutto per attrarre studenti verso questi due poli: scienze dure ed elaborazione del pensiero».