BARI - Il narcotraffico che, tra il 2005 e il 2006, muoveva i flussi di droga in città da una base logistica nel quartiere San Pasquale, a quel tempo sotto il controllo del capo clan Giacomo Caracciolese e con la gestione operativa di Alessandro Abbrescia, poi diventato collaboratore di giustizia, è ormai prescritto. La Giustizia ci ha messo 17 anni per presentare il conto a uno dei suoi presunti componenti, il pluripregiudicato Nicola Fumai, oggi 34enne. All’epoca dei fatti Fumai era una ragazzino, ancora minorenne, e mentre i suoi capi e sodali venivano processati e condannati (la sentenza definitiva è di aprile 2011), lui attendeva da presunto giovane criminale in erba, libero, che arrivasse anche il suo momento di scontare una eventuale condanna. Il processo a carico dei maggiorenni fu definito, come detto, nell’aprile del 2011, con sentenza emessa dalla Corte di Appello di Bari che ritenne la fondatezza dell’impianto accusatorio, cioè l’esistenza di una associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga. In quella sentenza Fumai fu pure condannato per alcuni episodi di spaccio, mentre la sentenza emessa dal Tribunale per i Minorenni per la più grave accusa di essere un narcotrafficante, fu pronunciata solo nel gennaio del 2013.
Lo stesso anno in cui il nome di Fumai divenne tristemente noto alle cronache giudiziarie per il triplice omicidio di mafia del quartiere San Paolo, che il 19 maggio vide la plateale uccisione, a colpi di kalashnikov, di tre persone: Vitantonio Fiore (figlio del boss Giuseppe), Antonio Romito e Claudio Fanelli. Il triplice omicidio fu la risposta di fuoco del gruppo Caracciolese, cui il Fumai - come accertato nella precedente indagine della Dda sul traffico di droga - era sodale, all’omicidio del capo del boss Giacomo Caracciolese, assassinato a Bari il 5 aprile 2013 per mano dello stesso Vitantonio Fiore e di Donato Cassano, quest’ultimo poi condannato a 18 anni per il delitto. Per festeggiare la vendetta sui Fiore, gli uomini di Caracciolese suonarono clacson all’impazzata per le vie della città e le carte processuali dicono che pochi giorni prima del triplice delitto, durante i preparativi dell’attentato, il commando si scambiò battute del tipo: «Ma tu sai come voglio andare? Col kalashnikov che gli devo menare trenta colpi, gli devo menare prima una raffica in testa… dietro la schiena che poi mi avvicino col piede lo devo girare e gli devo cantare la canzone “e il coccodrillo come fa… parapaparapara…”».
Nell’ambito della strage del San Paolo Fumai, che per quella vicenda sta scontando una condanna ormai definitiva a 20 anni di reclusione, ebbe il ruolo di gestire la logistica del gruppo di fuoco, tenendo i contatti tra i vari componenti del commando armato e preoccupandosi di recuperare, dopo la realizzazione dell’agguato, con l’utilizzo di un’auto «pulita», i killer che si erano disfatti del messo utilizzato e dato alle fiamme. Guardando oggi alla sua storia criminale e processuale, non può non evidenziarsi che quando Fumai prese parte alla pianificazione e realizzazione del triplice omicidio, avrebbe dovuto essere detenuto, scontando cioè quella vecchia storia di droga. E invece era libero in attesa di processo. Solo qualche mese prima era stato condannato in primo grado. La sentenza d’appello è arrivata qualche giorno fa, dieci anni dopo, e i giudici - accogliendo le richieste del suo difensore, l’avvocato Massimo Roberto Chiusolo - non hanno potuto fare altro che prosciogliere l’imputato, dichiarando la prescrizione del reato. Se la Giustizia fosse stata più rapida, forse avrebbe pagato in cella da narcotrafficante. E poi, non sarebbe diventato un assassino.