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Bari, Patty da 7 anni è costretta a letto per un’ischemia curata troppo tardi

 
Isabella Maselli

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Isabella Maselli

Bari, Patty da 7 anni è costretta a letto per un’ischemia curata troppo tardi

Patrizia oggi ha 31 anni. All’alba del 27 luglio 2015, quando a bordo di un’ambulanza del 118 arrivò al pronto soccorso del Policlinico con un forte mal di testa, ne aveva 24

Mercoledì 28 Dicembre 2022, 13:29

BARI - Lo «spazio temporale utile» in cui si sarebbero dovute realizzare le attività diagnostiche e terapeutiche «è possibile collocare in 4-5 ore», invece «furono concluse oltre le 24 ore successive alla comparsa dei sintomi». È il fattore tempo, dovuto a una non corretta e tempestiva diagnosi, e di conseguenza cura, ad aver causato cioè lo «stato irreversibile di tetraplegia, anartria, ipostenia del capo e della lingua» di cui soffre Patrizia Minerva, costretta in un letto da ormai più di sette anni.

Patrizia oggi ha 31 anni. All’alba del 27 luglio 2015, quando a bordo di un’ambulanza del 118 arrivò al pronto soccorso del Policlinico con un forte mal di testa, ne aveva 24. A distanza di oltre 7 anni, alcuni mesi fa, è arrivata la sentenza di primo grado del processo nei confronti dei medici, tutti neurologi, imputati per concorso in lesioni personali colpose . Ora sono state depositate le motivazioni di quella sentenza, che ha condannato a tre mesi di reclusione una delle tre neurologhe che quel giorno erano in servizio al pronto soccorso, Maria Elena Roca (con pena sospesa). Per altri quattro imputati, la neuroradiologa del pronto soccorso Liboria Garofalo, il primario e i due medici del reparto di Neurologia, Vito Covelli, Beatrice Pastore e Bruno Brancasi, il giudice ha dichiarato il non doversi procedere dopo la remissione di querela della vittima, assistita dall’avvocato Andrea Moreno, a seguito del risarcimento.

Patrizia non può muoversi e non parla, anche se le sue capacità cognitive sono intatte. Quando quella mattina arrivò in ospedale, fu sottoposta a visita neurologica e risonanza magnetica nucleare (Rmn) encefalo e angio per un sospetto di trombosi venosa. L’esito dell’esame non era attendibile, perché la paziente si muoveva, ma l’accertamento non venne ripetuto. Dopo alcune ore, lasciata su una barella nel corridoio del pronto soccorso, ne venne disposto il ricovero nel reparto di Neurologia. Le sue condizioni peggioravano e venne programmato un nuovo Rmn per la mattina successiva. Troppo tardi: era ormai in stato di coma grave.

Se fossero stati ripetuti gli esami o comunque se fosse stata segnalata al reparto di ricovero l’urgenza della situazione e la necessità di ripetere in tempi brevi gli esami neuroradiologici, «si sarebbe potuti intervenuti in un range temporale idoneo a prevenire l’evento o, quanto meno, ad attenuarne con un tempestivo intervento le terribili conseguenze che, nella realtà, si sono verificate» scrive il giudice, riportandosi alle conclusione della consulenza medico legale. E invece «soltanto con l’aggravarsi delle condizioni cliniche della paziente venivano attivati più approfonditi accertamenti e tuttavia non venivano posti in essere, tanto che la paziente subiva l’intervento di tromboectomia dopo circa 24 ore dal ricovero con una procedura di rimozione del trombo e riattivazione della circolazione durata circa un’ora che avrebbe potuto essere realizzata nella giornata precedente, se il manifestarsi dei sintomi fosse stato correttamente interpretato e non sottovalutato».

«L’intervento ritardato - conclude quindi la sentenza - ha avuto come conseguenza di non impedire l’aggravamento dello stato di salute» della donna, con «l’insorgenza di una malattia gravissima, consistita in una ischemia del tronco cerebrale per occlusione di natura trombo-embolica dell’arteria basilare che, non diagnosticata e curata tempestivamente, cagionava lo stato irreversibile di tetraplegia, anartria e disfagia, ipostenia del capo e della lingua».

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