Al Libertà

Bari, madre e figlio morirono intossicati: a giudizio il tecnico della caldaia

Isabella Maselli

Il manutentore accusato di omicidio colposo: i decessi per una fuga di gas

BARI - Madre e figlio morirono nell’appartamento dove vivevano nel quartiere Libertà intossicati dal monossido di carbonio fuoriuscito da una caldaia che sarebbe stata montata male. Era da pochi giorni scattato il lockdown, tra l’11 e il 12 marzo 2020, le famiglie erano trincerate nelle loro case «per legge» per salvarsi dal virus. Per Jabushanuri Beka e Eka, madre e figlio di 41 e 16 anni, di nazionalità georgiana, fu l’aria letale della loro casa a non lasciar loro scampo, un appartamento di via Dante, tra via Ravanas e via Ettore Fieramosca, dove un famigliari li trovò morti il giorno dopo. Chiamò subito i soccorsi ma quando arrivano sul porto gli operatori sanitari del 118 non fecero altro che accertare i due decessi.

A distanza di poco più di due anni, la Procura crede di aver individuato il responsabile di quella fuga di gas.

Ieri è cominciato dinanzi al giudice monocratico Michele Parisi il processo di primo grado nei confronti del 67enne barese M.F., manutentore della caldaia che secondo il pm Giuseppe Dentamaro era stata installata male.

Già dalle prime verifiche i poliziotti capirono che a causare il decesso fossero state le esalazioni forse di una stufa a gas. Poi le indagini successive delegate dalla Procura, consulenze tecniche, tabulati telefonici, dichiarazioni di persone informate sui fatti, hanno confermato il sospetto degli inquirenti.

Nel capo di imputazione per omicidio colposo formalizzato dal pm a carico del tecnico manutentore, si contesta che «per negligenza imprudenza e imperizia, nonché inosservanza di norme» il 67enne «aveva installato in casa delle vittime una caldaia a camera stagna e flusso forzato a condensazione, adibita a riscaldamento ambienti e alla produzione istantanea di acqua calda sanitaria alimentata a gas metano di rete».

Per farlo, ha ricostruito l’accusa, avrebbe usato «contrariamente a quanto previsto dal manuale di istruzioni, un condotto coassiale, quello deputato allo scarico fumi e aspirazione di aria esterna, non originale». Avrebbe poi installato questo coassiale «in modo inadeguato» e, in particolare, «senza supporti di fissaggio che ne assicurassero la stabilità in caso di sollecitazioni, tra cui vibrazioni o dilatazioni termiche».

Quindi, è l’ipotesi della Procura, non avrebbe «impedito che il condotto coassiale si scollegasse dalla caldaia, con la conseguenza che la caldaia, anziché immettere in camera di combustione aria pulita prelevata dall’esterno, iniziava ad aspirare aria dall’interno dell’appartamento che si miscelava con i fumi di combustione, provocando una combustione incompleta, in carenza di ossigeno, tale da formare una miscela di anidride carbonica e di monossido di carbonio che veniva inalata dai due, tanto da provocarne la morte per insufficienza cardio respiratorio acuta secondaria ad intossicazione acuta da monossido di carbonio».

Nella prima udienza del processo che si è celebrato ieri si è costituita parte civile la sorella della donna, zia del figlio adolescente deceduto, assistita dall’avvocato Aurelio Gironda.

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