Bari, 28 luglio 1943
Paolo Laterza: «Sparò l’esercito, non vidi fascisti»
La strage di via dell’Arca nel racconto di un testimone. Il ruolo di un provocatore nel corteo antifascista
BARI - «Sono uno dei pochissimi testimoni di quella tragica giornata, ne custodisco ogni fotogramma nella mente. Si tratta di ricordi che il tempo non ha cancellato e, d’altronde, come potrei mai dimenticare?». La giornata in questione è il 28 luglio del 1943, data dell’eccidio di via Nicolò dell’Arca, e gli occhi che tutto registrarono sono quelli di Paolo Laterza - classe 1928, avvocato e già membro del Consiglio Superiore della Banca d’Italia, nonché ex presidente della casa editrice - al tempo della strage quattordicenne studente dell’istituto «Di Cagno Abbrescia».
La sua narrazione muove da un angolo visuale privilegiato, avendo egli non solo partecipato al corteo che andò incontro al regio fuoco di sbarramento, ma anche a tutte le fasi che ne precedettero lo svolgimento. Il racconto inizia proprio da qui: «Caduto il regime, il gruppo degli antifascisti baresi era in attesa della scarcerazione dei tanti detenuti politici tra cui Giuseppe Laterza e Guido De Ruggiero. Eravamo tutti in trepidazione. La libreria Laterza, nella sua storica sede di via Dante Alighieri, era il luogo ove si consumavano continuamente riunioni segrete. Ragionando sul da farsi, si decise di iniziare a esercitare pressione sulle autorità locali che continuavano a non fornire indicazioni sul rilascio, forse perché, a loro volta, non ne ricevevano».
Da qui l’idea, maturata il 27 sera, di imbastire un corteo che, partendo da via Dante, puntasse verso la Prefettura. Il giorno dopo ebbe così luogo una marcia destinata a raccogliere sempre nuovi aderenti ad ogni isolato. Ma, all’arrivo in Piazza Prefettura, accadde qualcosa. «Su iniziativa di alcuni – ricorda Paolo Laterza – i manifestanti furono invitati ad invadere la sede del Partito Nazionale Fascista (PNF) di corso Vittorio Emanuele. Lo stabile era abbandonato e vi si consumò una vera e propria scorreria con oggetti che volavano dai balconi ed il furto, ad opera di qualche ladruncolo unitosi all’assalto, di alcune macchine per scrivere. Ovviamente non era questo lo scopo dell’adunata e la bravata scatenò le ire di coloro che guidavano la manifestazione».
Il corteo fu, comunque, faticosamente ricompattato e, sotto la guida di Fabrizio Canfora e Graziano Fiore (il figlio di Tommaso, che, diciottenne, sarebbe stato fra le vittime in via dell’Arca), si dotò di un nuovo itinerario. «Si decise – riprende - di percorrere via Sparano, raggiungere la stazione, superare l’allora ponte in pietra, imbroccare Corso Sicilia per poi puntare sul carcere alle porte del quale la protesta avrebbe raggiunto un peso specifico maggiore e un alto valore simbolico». Ma, di nuovo, il meccanismo si inceppò. «Giunti in prossimità del monumento a Re Umberto I, un uomo urlò: “Andiamo verso la federazione!” e parte del corteo deviò il proprio cammino verso via Nicolò dell’Arca. Il professor Canfora e Graziano furono costretti a fermarsi e a correre per riguadagnare la testa della manifestazione. E, così, ci ritrovammo tutti nei pressi della Federazione Provinciale del PNF cui però non riuscimmo nemmeno ad avvicinarci. A sbarrarci il cammino c’era infatti un plotone di soldati guidato da un giovane ufficiale».
Alcune domande, a questo punto, si impongono: chi era l’uomo che, di fatto, dirottò il corteo? Un facinoroso? Un esaltato? Un infiltrato? E, soprattutto, come mai un reparto del regio esercito era già lì schierato? «Non escludo che fosse giunta notizia dell’assalto di corso Vittorio Emanuele e che, dunque, si temesse un nuovo arrembaggio. Ciò spiegherebbe perché i soldati erano prontissimi all’azione. Quanto all’uomo che gridò, non saprei fornire i suoi dati anagrafici, ma mi è capitato di rivederlo in giro per Bari e, guardandolo, ho sempre provato un forte senso di fastidio».
Ai manifestanti, comunque, non rimase che iniziare a parlamentare con l’ufficiale, spiegando le ragioni di un corteo che ambiva semplicemente a passare per raggiungere il quartiere Carrassi. Ma la discussione non durò che pochi minuti perché la situazione precipitò improvvisamente. «Si udì uno sparo – ricorda Laterza -, poi una breve pausa e infine l’apertura del fuoco da parte dei soldati che premettero il grilletto senza nemmeno attendere l’ordine dell’ufficiale. D’altronde Badoglio era stato chiaro: qualsiasi manifestazione doveva essere repressa con la forza. Probabilmente i militari si sentirono minacciati e reagirono d’istinto nel modo più feroce possibile. Non so dire chi esplose il primo colpo in aria. Forse qualcuno dalla folla. Si è parlato anche di miliziani fascisti appostati dietro le finestre del palazzo: in quei frangenti mi capitò di alzare lo sguardo, ma non vidi nessuno. Era tutto chiuso e poi gli spari avevano una traiettoria orizzontale e non piovevano dall’alto. Di fascisti non ce n’erano: con il regime in ginocchio, pensavano solo a mettersi in borghese e a scappare».
A questo punto, la narrazione, dettagliata e cronachistica, cede il posto alle emozioni più vivide: «Fu una carneficina – conclude Laterza - con venti morti e quaranta feriti. Io ero in terza fila e riuscii a salvarmi solo perché Corrado De Ruggiero, figlio del filosofo Guido, mi coprì con il suo corpo. Da terra vidi una serie di oggetti disseminati sull’asfalto e mi resi conto che la raffica aveva raggiunto anche dei passanti inconsapevoli. Poi non mi rimase che correre e rifugiarmi in una portineria. A distanza di tanti anni posso dirlo: sono un sopravvissuto».