BARI - «Queste persone si mettono a portare cose e non mi avvisano. Alla fine il bar non è più mio, è vostro, cioè di tutti. Quello impone una cosa, quello ne impone un’altra, tu ne imponi un’altra ancora. E io che ci sto a fare qui? Il pupazzo?». In questa frase, stralcio di una intercettazione in un cui a parlare è un commerciante barese, c’è la sintesi di quello che per anni sarebbe accaduto in città: la gestione mafiosa del mercato delle videolottery, uno dei più fiorenti settori economici di Bari su cui la mafia abbia messo la propria mano, quello delle sale giochi.
Un giro d’affari, apparentemente legale, di centinaia di milioni. A gestirlo, all’ombra dei vertici dei principali clan di Bari, sarebbe stato l’imprenditore Baldassarre D’Ambrogio (già condannato in primo grado con rito abbreviato a 7 anni e 8 mesi di reclusione con il processo d’appello ancora pendente). Ora la Corte di Appello di Bari ha confermato 18 condanne inflitte nel luglio 2021 con rito ordinario, riducendo in parte le pene inflitte, per altrettanti imputati nel processo «Gaming machine», per i reati, a vario titolo contestati, di illecita concorrenza con violenza e minaccia e con l’aggravante del metodo mafioso, estorsione, riciclaggio, usura, contrabbando di sigarette e detenzione abusiva di armi clandestine. I fatti contestati risalgono agli anni 2012-2019 e nel gennaio 2020 furono arrestate 36 persone, tra i quali D’Ambrogio, ancora detenuto agli arresti domiciliari.
L’accusa è di aver gestito per anni in modo quasi monopolistico le videolottery sull’intero territorio, facendo accordi con i vertici dei clan mafiosi della città e «imponendo una posizione dominante nel mercato dei videopoker e di altri apparati da intrattenimento elettronici», attraverso «la minaccia e l’assoggettamento omertoso».
Stando alle indagini di Gico e Scico della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dal procuratore Roberto Rossi e dal pm antimafia Bruna Manganelli, Baldassarre D’Ambrogio, socio di fatto di società e sale giochi, avrebbe assunto il controllo assoluto del business delle slot machine, usufruendo della fama criminale dello zio pregiudicato Nicola D’Ambrogio, tra i reggenti del clan Strisciuglio (per lui pena ridotta da 6 a 4 anni di reclusione).
Condannate anche le mogli dei due D’Ambrogio, Antonella Pontrelli e Maria Cantalice (condanne ridotte rispettivamente a 2 anni e 4 mesi - la pena più bassa inflitta dai giudici di secondo grado - e a 2 anni e 10 mesi di reclusione). Nel processo erano imputati, e sono stati condannati, anche i pregiudicati baresi Vito Valentino (confermati 6 anni di reclusione), Giuseppe Capriati (da 5 anni a 2 anni e 10 mesi), Vincenzo Anemolo (da 6 anni a 2 anni per essere diventato collaboratore di giustizia, con esclusione dell’aggravante mafiosa), Domenico Capodiferro (confermati 4 anni e 4 mesi), Vito Antonio Catacchio e Giuseppe Ranieri (pena ridotta da 5 anni a 3 anni e 2 mesi). Pene ridotte anche per Ruggiero Brancacci (da 5 anni e 6 mesi a 2 anni e 4 mesi), Francesco Belviso, Antonio De Antonis, Nicola Padolecchia e Francesco Quarto (da 5 anni e 6 mesi a 3 anni e 6 mesi), Tommaso Cacucciolo (da 6 anni e 8 mesi a 4 anni e 8 mesi), Nicola Cantalice (da 5 anni e 6 mesi a 2 anni e 10 mesi).