Il 22 marzo scorso, proprio mentre il Dipartimento della Salute si accinge a diffondere le disposizioni attuative per la somministrazione degli anticorpi monoclonali alle Asl pugliesi, alle aziende ospedaliero universitarie, agli Irccs, agli enti ecclesiastici, ai presidenti degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri e alla segreteria del Comitato permanente regionale per la medicina generale, Giovanni Abbinante, 69 anni, barese (nomi e cognome di questa storia sono di fantasia, il resto è autentico) riceve la notizia di essere positivo al Sars-Cov-2. La famiglia, a conoscenza del fatto che due settimane prima, precisamente il 9 marzo, l’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, ha finalmente fornito le indicazioni terapeutiche per l’uso dei farmaci dopo l’autorizzazione temporanea del 6 febbraio, telefona al medico di base. «Mi disse di non aver avuto alcuna comunicazione ufficiale - afferma Miriam Abbinante, figlia del malato - e quindi di non poter assecondare la nostra richiesta di trattamento per mio padre che si trovava però proprio nella condizione prevista: non era ospedalizzato, non era in ossigenoterapia per Covid19 e rientrava tra i soggetti con più di 55 anni affetti da fibrosi polmonare».
La terapia monoclonale è destinata (altrimenti di sicuro non funziona) ai soggetti, dai 12 anni in poi, con sintomi di grado lieve-moderato di recente insorgenza (e comunque dopo non più di 10 giorni dalla comparsa) e in presenza di almeno un fattore di rischio. Tra i criteri di eleggibilità, che alla fine è stabilita dai presidi ospedalieri autorizzati, ci sono anche, ma solo se si è almeno 55enni, le patologie cardio-cerebrovascolari (inclusa l’ipertensione arteriosa con danno d'organo) e la broncopneumopatia cronica ostruttiva o (appunto) una malattia respiratoria cronica come la fibrosi polmonare. I congiunti del signor Abbinante lo sanno, perché sono fra coloro i quali hanno letto attentamente i contenuti riportati nella scheda clinica diffusa dall’Aifa, così come è a loro chiara la procedura per richiedere i monoclonali: come stabilito nelle modalità e nelle condizioni di impiego, il bamlanivimab, ad esempio, può essere somministrato, di fatto in combinazione con altri monoclonali e preferibilmente nell'ambito di una struttura ospedaliera in modo da garantire una appropriata gestione di eventuali reazioni avverse gravi, dopo una selezione del paziente da parte dei medici di medicina generale, dei pediatri, dei medici delle Usca (le unità speciali ci continuità assistenziale che hanno il compito delle visite a domicilio) e, in generale, dei medici che in qualche modo entrino in contatto con i pazienti (quindi teoricamente anche i camici bianchi ospedalieri).
In quattro giorni le condizioni del signor Abbinante peggiorano. Il 26 marzo, proprio quando la Regione annuncia la fornitura della prima fiala da parte dell’ospedale Di Venere, centro di stoccaggio e smistamento per tutto il territorio pugliese, all’ospedale Perrino di Brindisi, il paziente inizia ad avere problemi respiratori, tanto che il 27 è necessario il ricovero («ha cominciato a desaturare e ha dovuto fare uso di ossigeno. A questo punto i monoclonali non servivano più», dichiara Miriam). Solo più tardi dal Policlinico (il 30 marzo) e dalla Asl (il 31) arrivano i comunicati stampa con cui si celebra il nuovo corso. «Un’arma in più contro il coronavirus. Al Policlinico di Bari - si legge - sono stati somministrati sui primi pazienti Covid gli anticorpi monoclonali ed è stato definito un percorso protetto di presa in carico di soggetti eleggibili al trattamento». «L’ospedale Di Venere - è scritto nella nota dell’Asl - ha eseguito la prima somministrazione di farmaci anticorpi monoclonali. Ad usufruirne un paziente di 58 anni, selezionato in base ai criteri stringenti stabiliti da Aifa. La proposta del medico di medicina generale è arrivata ieri e in 24 ore è stata validata e finalizzata». La notizia è ripresa, nell’edizione del 31, anche dalla Gazzetta che scopre un particolare (peraltro riportato, senza numeri specifici, nella nota regionale del 22): più lotti di farmaci sono stati già consegnati al Di Venere due settimane prima.
I primi 222 flaconi di Bamlanivimab arrivano a Carbonara martedì 16 marzo. Poi, il 25 ne giungono altri 846. Di questi soltanto uno è ritirato dal Policlinico (come già visto), mentre altri nove sono consegnati ai Riuniti di Foggia (1), al Perrino di Brindisi (2), al Fazzi di Lecce (3), al Masselli Mascia di San Severo (2) e al Dimiccoli di Barletta (1). Sempre il 25 vengono riposte nei frigoriferi della farmacia del Di Venere 1.692 fiale di Etesevimab, sei delle quali inviate nella settimana successiva a Foggia (2), Lecce e al Policlinico di Bari, più quella somministrata al 58enne ricoverato a Carbonara. Non finisce qui: il 26 è la volta di un carico di 1.676 unità di Casirivimab, fino a fine marzo rimasto intatto. La disponibilità è dunque di oltre 4.400 dosi, elemento che (dopo aver letto questo quotidiano) desta l’attenzione della famiglia Abbinante, ma non quanto un particolare: la prima consegna da parte del Ministero della Salute al Di Venere è appunto del giorno 16, sei giorni prima dell'accertamento della infezione del signor Giovanni. «Mi sono chiesta - continua Miriam, visibilmente amareggiata -: se i monoclonali c’erano, perché non è stato possibile prescriverli? Perché il mio medico di base non ne sapeva nulla?».
La risposta è, anche stavolta, nelle date. Messe nero su bianco le disposizioni da parte della Regione (il 22), peraltro dieci giorni dopo l’aggiornamento dell’Aifa, la Asl se ne prende altri dieci per informare ufficialmente i medici di base e i pediatri, sebbene l’azienda sanitaria locale respinga una responsabilità diretta. «Il Dipartimento di assistenza territoriale (che sovrintende tutta l’area dei servizi sanitari offerti sul territorio - n.d.r.) ha inviato la comunicazione, allegando la documentazione (tra cui le determinazioni di Aifa e della Regione) e invitando i direttori dei distretti a notificare tutto a medici e pediatri, il 31 marzo alle ore 10.46 dopo una mail inviata dalla direzione del Dipartimento del Farmaco nemmeno un’ora prima». In realtà una pec con le deliberazioni del 22 marzo viene inviata dal Servizio farmaci del Dipartimento Salute della Regione alla direzione generale dell'Asl quasi in tempo reale, cioè lo stesso giorno alle 13.07.
In mezzo a ritardi e rimpalli, resta strozzato il signor Abbinante (più tanti come lui). Solo l’avvio al Policlinico e al Di Venere, strombazzato dagli uffici stampa e ripreso da giornali, emittenti e siti, permette una accelerazione: prima di aver ricevuto l’avviso formale, l'eco mediatica induce i dottori di famiglia più attenti e intraprendenti (in molti, travolti dalle incombenze, per giorni non hanno nemmeno visto la comunicazione ufficiale dell’Asl) a contattare i presidi per provare a salvare la vita ai loro pazienti. Ma, per chiudere il cerchio della mala burocrazia, c’è un altro macigno che frena le somministrazioni dei farmaci monoclonali. Affinché si possa inoltrare la richiesta ai centri autorizzati, che poi verificano l’idoneità del paziente prima di procedere con l’infusione, si deve ovviamente essere certi dell’infezione. Ma effettuare i tamponi molecolari non è celere quanto servirebbe, ancorché di recente ci sia stato un miglioramento rispetto alle due settimane in media di attesa del recente passato: ci vuole almeno una settimana, fra test, esito e comunicazione ai medici di medicina attraverso la piattaforma on line, per poter proporre agli ospedali un paziente adatto al trattamento con monoclonali, cioè quando ormai è pressoché impossibile avvantaggiarsi della terapia. Giovanni Abbinante in realtà una diagnosi, almeno quella, l'ha ottenuta in tempo. Ma non è servita. È morto il 7 aprile.