Lo statista Dc ucciso chissà quante volte in 40 anni

GIUSEPPE DE TOMASO

di GIUSEPPE DE TOMASO

La tragedia di Aldo Moro (1916-1978) non finisce mai. Una tortura postuma senza intervalli. Sono trascorsi quasi 40 anni dal rapimento del presidente dc in via Fani e dal ritrovamento del suo cadavere in via Caetani, ma il tiro al bersaglio contro il povero leader non conosce pause. Moro non è stato ammazzato solo una volta. È stato ucciso tutte le volte che qualcuno ha ostacolato o impedito la ricerca della verità. È stato ucciso tutte le volte che qualcuno ha mancato di rispetto (e di pietà) nei suoi confronti, nei confronti di un uomo vittima della congiura forse più sconvolgente della nostra storia dopo quella che, nelle Idi di marzo, portò all’ eliminazione di Giulio Cesare (100-44 avanti Cristo).

L’altro ieri la brigatista rossa Barbara Balzerani, presente anche in via Fani, si è esibita su Facebook con un post («Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?») che avrebbe voluto essere ironico, ma che, pure agli animi più spregiudicati, è apparso blasfemo e vergognoso, oltre che irriverente e irricevibile.

Tutte le tragedie non meritano retropensieri satirici e sarcastici. Ma se c’è una tragedia che non merita, e non ammette, boutade o tentativi più o meno maldestri di ironica sdrammatizzazione, la principale riguarda il caso Moro.

L’Italia non ha fatto ancora i conti con l’eccidio del 18 marzo 1978 e con l’epilogo del 9 maggio 1978. L’Italia del Potere, che non è solo l’Italia della Politica, sembra tuttora provare un senso di fastidio quando rispunta la vicenda di quei 56 giorni che sconvolsero il Paese. Basti pensare al silenzio assordante che ha accompagnato i lavori, e ha accolto, le conclusioni dell’ultima commissione parlamentare sul caso Moro, presieduta da Beppe Fioroni e vicepresieduta da Gero Grassi. La commissione ha svolto indagini meticolose e capillari. Ha interrogato testimoni inediti e negletti. Ha ripescato fatti incredibilmente sottaciuti. Ha riaperto fascicoli impolverati e mai consultati. Ha acceso fari su tutte le zone oscure del pre-rapimento, del rapimento e del post-rapimento. Ma tanto impegno non ha ricevuto la dovuta risonanza mediatica, anzi qualche anima scanzonata ha fatto fatica a celare un sostanziale scetticismo, quasi che la relazione finale della commissione fosse un mosaico di teoremi e non una sistematica ricostruzione di fatti accertati.

Questo giornale non è portato a cadere prigioniero delle interpretazioni cospirazionistiche degli eventi storici, né è affamato di letture dietrologiche. E non è neppure un aedo del revisionismo storico a tutti i costi, da alimentare a prescindere. Ma la concatenazione dei fatti e misfatti accertati che caratterizzano il periodo della prigionia di Moro farebbe vacillare pure l’avantologo più cocciuto, quello più refrattario all’esame di nuovi retroscena e rivelazioni. Anche perché la dietrologia su Moro non è più tale. È pura avantalogia, visto che i fatti parlano alla luce del sole.

Nella documentazione sul delitto Moro curata dalla commissione parlamentare (in particolare da Gero Grassi), sui cui lavori la Gazzetta ha riferito in questi anni, vengono scoperchiate connivenze e prepotenze, mascalzonate e vigliaccherie, ipocrisie e depistaggi. Insomma: Moro doveva morire.

Già l’agguato di via Fani rappresenta un rebus da infarto. Un’azione militare perfetta: Moro rapito e la scorta ammazzata. Operazione che manco dieci James Bond avrebbero saputo portare a termine con analoga abilità chirurgica. Possibile che ne fosse capace un commando di brigatisti che, fino a quel giorno, non si erano mai distinti in gesta militari di così elevata precisione?

E la condotta del governo Andreotti nei giorni successivi al sequestro? E la chiusura di ogni spiraglio trattativistico? E il sostanziale boicottaggio dell’intervento di mediazione di papa Paolo VI? E l’oscura vicenda della seduta spiritica da cui emerse il nome di Gradoli? E il ruolo dei servizi segreti non solo italiani? E le infiltrazioni istituzionali (poi dimostrate) tra i terroristi? E le complicità tra le superpotenze?

Si potrebbe continuare all’infinito. Un filo conduttore emerge dalla lettura degli atti: per i registi, per i burattinai dell’epoca, Moro non andava salvato. Il grande Leonardo Sciascia (1921-1989) fu tra i primi, se non il primo in assoluto, a intuire che il vero Moro era quello delle lettere dal carcere, in cui il prigioniero indicava una via d’uscita alle autorità dello Stato, e in cui esprimeva le sue più sincere valutazioni sulla nomenklatura in carica, che lo aveva abbandonato.

Sciascia venne preso per un visionario, per un romanziere smanioso di arricchire con il capitolo su Moro il suo giallo-pamphlet Todo Modo, la cui trasposizione cinematografica con uno strepitoso Gian Maria Volontè (1933-1994), aveva scioccato il pubblico, a causa dell’impressionante somiglianza fisica tra il personaggio protagonista della pellicola e il presidente della Dc.
Probabilmente il puzzle di scoperte per decrittare il mistero Moro è ancora incompleto, anche se i pezzi di verità messi assieme dai commissari parlamentari consentono di ben collocare i tasselli del mosaico. Ma il «martirio laico» dello statista pugliese rimane lì, nella sua drammatica evoluzione, anche postuma.

Strano Paese è il nostro, in cui la verità è un optional, e in cui neppure la morte riesce a scongiurare sberleffi e derisioni. Fu Moro per primo a presagire per se stesso una fine choc simile a quella di John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) a Dallas. Ma c’è una differenza tra l’omicidio Kennedy e l’omicidio Moro. Il presidente Usa si è visto uccidere solo una volta. Il leader italiano si è rivisto e si rivede uccidere chissà quante volte. E non solo dai protagonisti e dai sodali delle Brigate Rosse.

Giuseppe De Tomaso
detomaso@gazzettamezzogiorno.it

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