C'è un giudice a Strasburgo? La lunga attesa (non solo) ad Arcore
di SERGIO LORUSSO
Si è svolta ieri innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, presidio sovranazionale dei diritti e delle libertà individuali, l’udienza pubblica di discussione del ricorso presentato – quattro anni orsono – da Silvio Berlusconi contro lo Stato italiano originato dalla perdita dello status di parlamentare dichiarata dal Senato nel 2013 in applicazione della “legge Severino” (l. 6 novembre 2012, n. 190) e dalla correlativa incandidabilità che scaturiscono dalla condanna con sentenza definitiva del Cavaliere per frode fiscale.
Intanto, qualche nota di contesto (e di colore). Si è trattato del caso giudiziario maggiormente atteso dell’anno tra quelli sottoposti all’attenzione dei giudici di Strasburgo: lo testimoniano gli oltre 550 accrediti distribuiti per l’occasione. L’udienza è durata solo due ore e un quarto (un tempo irrisorio, se parametrato alle consuete cadenze dei nostri processi) e – come ampiamente previsto – la decisione sarà resa nota in seguito, presumibilmente nella primavera del 2018, dunque nell’imminenza o dopo la consultazione elettorale che deciderà gli assetti politici nazionali dei prossimi cinque anni, impedendo comunque a Berlusconi di candidarsi. Dall’andamento della discussione, tuttavia, è possibile trarre qualche elemento di riflessione giuridica, pur senza aver la pretesa – ovviamente – di anticipare e di vaticinare gli esiti di una controversia che, al di là del pur rilevante caso specifico, è destinata ad avere un peso non indifferente sul nostro Paese.
La difesa del Cavaliere – che oltre agli artt. 6 e 7 invoca anche la violazione dell’art. 13 CEDU, non essendo prevista per le decisioni del Parlamento uno strumento che garantisca il «diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale» – ha parlato di «decisione presa dai suoi avversari politici», in un Senato paragonato ad «un anfiteatro romano in cui una maggioranza di pollice versi o pollici in alto decidono se uno va su o giù», decidendo della vita del gladiatore grazie all’esercizio di un potere draconiano. Immagine colorita, ma non determinante. Uno dei punti nodali su cui fa leva il ricorso è quello della irretroattività della norma penale incriminatrice, sancita dall’art. 25 comma 2 Cost.: quando è stato commesso il reato che ha fatto scattare la decadenza (e l’incandidabilità per sei anni), infatti, la legge Severino non era ancora entrata in vigore. Naturalmente si tratta di capire se la sanzione prevista da tale legge è una sanzione penale, o comunque ad essa assimilabile: in caso contrario, non può essere invocata l’irretroattività. E stando a quanto emerso a livello di giurisprudenza costituzionale non sembra che le conseguenze pregiudizievoli in materia di accesso e di mantenimento di cariche pubbliche collegate dalla legge Severino ad una condanna possano essere equiparate ad una pena (si veda la sentenza della Corte costituzionale 19 novembre 2015, n. 236, sul caso De Magistris). La Consulta, anzi, ha ritenuto in linea con il dato costituzionale la limitazione posta all’accesso a cariche pubbliche, evocando l’art. 54 Cost. nella parte i cui impone ai cittadini di adempiere alle funzioni pubbliche «con disciplina ed onore».
Questione facilmente risolta, quindi?
Tutt’altro. Siamo infatti di fronte ad una normativa che chiama in causa, in maniera più sensibile che in altre occasioni, valutazioni di carattere etico, dimostrando come molto spesso l’applicazione del diritto, a fronte della sua pretesa oggettività, è la risultante di una serie di variabili (alle quali non sono estranee le personali inclinazioni culturali, morali, sociali e – perché no – politiche di chi lo deve tradurre in “diritto vivente”).
E qui i confini tra etica e diritto sono più che mai labili.
A renderli evanescenti sono le stesse norme costituzionali, che fanno leva su concetti metagiuridici per definire la fruizione dei diritti politici e lo statuto del soggetto che riveste funzioni pubbliche: l’art. 48 comma 4 Cost. prevede infatti che il diritto di voto possa essere limitato «nei casi di indegnità morale indicati dalla legge» (un tempo era considerato tale il fallito); l’art. 54 comma 2 Cost. impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche «di adempierle con disciplina ed onore».
Indegnità morale, disciplina, onore: espressioni che fanno riferimento a valori, a giudizi morali piuttosto che a freddi dati giuridici.
Lo stesso iter che ha condotto alla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore, del resto, presenta profili tutt’altro che solidi: dalla diversità di trattamento riservata ad Augusto Minzolini (evocata dalla difesa suscitando l’attenzione di uno dei giudici della Corte), che depone in favore di una discrezionalità della decisione, come tale utilizzabile a fini politici; alle modalità di votazione in aula – a scrutinio palese, su richiesta del Movimento Cinque Stelle recepita dal Presidente del Senato Pietro Grasso, in deroga al regolamento che prevede il voto segreto ogniqualvolta si debba prendere una decisione che riguardi le persone – guardate con interesse da un altro giudice.
Sarà Strasburgo l’ultima Thule del Cavaliere?
Molti se lo domandano, l’Italia attende. Berlusconi, intanto, spera che ci sia un giudice (per una volta da lui gradito) in Europa.