la riflessione

La lezione del Covid: nessuno si salva da solo

Raffaele Nigro

Un terremoto inatteso e violentissimo si è abbattuto sul mondo da oltre un anno. Una pandemia che ha cancellato circa tre milioni di persone e nella sola Italia ha mietuto 130 mila vittime. Abbiamo negli occhi le immagini dei camion militari che trasportavano bare verso i cimiteri di Bergamo e dei comuni limitrofi. E le incertezze degli stessi scienziati, incapaci di indicare giuste strade per gli affetti dal coronavirus. Ma non meno drammatiche le scene che venivano dal Brasile, le strade deserte di New York, i fotogrammi di un’India al collasso, con la ripetizione dei bagni di folla nelle acque del Gange e i fuochi delle pire. Pietà e rabbia che ci coglievano al tempo stesso, per le moltitudini di moribondi, per le scelte politiche e le minimizzazioni di politici come Bolsonaro e Trump, la furbizia politica dei cinesi, con i loro mercati di carni e di stranezze. Mentre non smettevano di bombardarsi siriani, palestinesi, israeliani, libici. Quasi un’ira collettiva nell’ira pandemica. In un niente ci siamo resi conto del come l’uomo possa tornare ai timori e alle incertezze del passato , come preconizzavano i racconti di Golding, e come anche la scienza da un lato abbia i suoi tempi per venire in aiuto dell’umanità e dall’altro come si possano compiere miracoli straordinari e in un anno riuscire a mettere in campo un ombrello sanitario di grande efficacia.

Un fatto è certo, che la globalità economica si è mostrata anche globalità delle malattie e dei disastri e che nel nostro tempo nessuno si salva da solo.

La certezza della pericolosità io l’ho avuta più tardi. All’inizio sembrava così lontana la malattia ed eravamo vinti da una qualche pietà per i cinesi di Wuhan. Era tutto così lontano e mi sembrava che il nostro mondo, o meglio la nostra latitudine occidentale fosse intangibile. Ci siamo accorti che il Covid minacciava anche noi solo quando abbiamo cominciato a sapere dei primi morti nel Veneto e nella Lombardia, solo quando un sistema sanitario efficientissimo come quello milanese crollava sotto i colpi feroci del morbo e le corsie si sovraffollavano e i cimiteri traboccavano. Ho sognato per alcune notti i reparti dei cimiteri di Roma, di Napoli, di Palermo stracolmi di bare che aspettavano una qualche inumazione. La morte galoppava. Solo allora è nata una vera paura.

Il giorno che io l’ho veramente avvertita è stato quando ho saputo della morte di Luis Sepulveda, un caro amico, un uomo che era sopravvissuto agli attacchi di Pinochet e che mi era sempre sembrato una roccia capace di difendere le ragioni dei mari, della flora e della fauna di mezzo mondo. Luis stroncato dal Covid in un battibaleno. E dopo di lui un altro scrittore, uno che avevo frequentato per qualche tempo e che si stava occupando di Dante e della ricorrenza del settimo centenario della morte del poeta. Stroncato in poco tempo. E ancor più ho sofferto quando è venuto a mancare un amico che mi era stato vicinissimo e col quale avremmo dovuto realizzare un progetto di addobbo nel palazzo vescovile di Melfi. Beppe Labianca, pittore e scultore, poco più che settantenne era stato attaccato da quelle strane infruttescenze di platano che formano la piccola morula del covid e che ostruiscono l’aria ai polmoni. Beppe aveva cominciato a tossire e a sentirsi affogare. Era andato in apnea, come un uomo che annaspa nell’acqua del mare o di un lago e che dibattendosi senza speranza muore.

Quante paure da allora e quanto ho creduto alla pericolosità del morbo!

Ricordo le prime settimane, le città vuote nel coprifuoco e alle diciotto la gente che usciva alle finestre e intonava l’inno di Mameli, per farsi coraggio, per far sentire la propria vicinanza agli altri. Che sensazione di profonda solidarietà ho avvertito in quei giorni, quando dalle finestre veniva calata una cesta con la scritta: «chi può metta, chi non può prenda». Il male di tutti era il male di ognuno. Una guerra comune contro un virus che faceva paura ma che sentivamo di dover attaccare e scacciare. Una guerra che si allargava piano piano a una improvvisa povertà.

Che pandemia silenziosa fuori e dentro casa, tutti nemici, tutti mascherati, gli uni contro gli altri, tutti a guardarci preoccupati, alla ricerca dell’untore. Io non ho più incontrato amici. Non mi sono più reso reperibile se non per telefono. Pronto a rinviare o a rifiutare qualunque visita. Atterrito dal citofono che squillava o dall’arrivo sotto casa del postino. E magari armati, andando al supermercato, dell’app Immuni per individuare l’untore nascosto e tenermi lontano, come un magnete respingente. E attento a partecipare a convegni solo in streaming, con una faccia che parlava e tanti francobolli che ascoltavano attoniti.
Poi l’arrivo dell’estate, un improvviso ed errato convincimento che fosse tutto finito. Liberi tutti! Si pensava, si urlava, ci si abbracciava. Tutti a sputare nel mare. E pronti a berci inconsapevoli quegli sputi. Ma la seconda ondata era dietro l’angolo. Cominciavano ad arrivare le prime dosi di vaccini, toccavano al personale sanitario. Erano stati eroici e meritavano ogni attenzione. Si erano imbucati anche i medici di base. Che non avevano fatto molto, in tanti avevano staccato i telefoni, si erano resi irreperibili e non li trovavi manco con i carabinieri. Solo a «Chi l’ha visto» potevi rintracciarne qualcuno, i meno furbi. A costoro si accodarono categorie che si sentivano privilegiate. I docenti universitari, i bidelli e i segretari delle università. Gente che era rimasta a casa sprofondata davanti ai televisori. A «lavorare». O che partecipava a un distance learning che in verità praticavano solo i maestri e i docenti medi. È esplosa allora l’Italia peggiore, quella dei furbi, di un’Italia fatta di furfanti e di menefreghisti. Con i tribunali e i magistrati e gli avvocati che battevano cassa. Gente che lavora tanto indefessamente da far crescere nei palazzi montagne di carte già in tempi normali! Ora avevano bisogno di vaccinarsi immediatamente. Era nato lo smart working, che hanno tenuto chiusi gli uffici, bloccato il lavoro, prepensionate persone di trenta e quarant’anni! Una consorteria di lavoratori che si sono nascosti dietro lo schermo del computer. E che per una carta d’identità ti hanno fatto aspettare mezzo anno.

Ora non sto a ricordare le prime guerre per la scelta dei vaccini. Le prime guerre di pubblicizzazione dei prodotti. L’Astrazeneca è sicurissimo, non fateci caso se ci sono stati una trentina di trombosi con morte immediata. Chiarita poi come morte solo per donne giovani che usano l’anticoncezionale. Una pubblicizzazione del prodotto da far accapponare la pelle.
E non sto a dire della corsa ai vaccini Pfizer e Moderna. Vaccini per raccomandati. Vaccini per la cui somministrazione bisognava raccomandarsi a domineddio. Bisognava arrivare presso gli hub con una serie di certificazioni. I più fortunati erano coloro che potevano mostrare un elenco lunghissimo di malattie. Le malattie preferite: trombosi, ictus, allergie, cancri, diabete, cecità emorroidi, sanguinanti.

Ho ascoltato a telefono amici che erano disperati per non avere nessuna di queste malattie.
E ora non sto a parlare dei richiami, con nuove furbate dei grandi soloni nazionali. Pfizer si può allungare a 35 o 42 giorni di distanza, laddove la casa produttrice sostiene che dopo tre settimane bisogna inoculare la seconda dose. Si fanno salti mortali per dimostrare che si possono attendere sei settimane, che non si muore se si attendono per l’Astrazeneca quattro o cinque mesi. La mira è diventare pecore ed entrare nel gregge.

Si scatena in questa circostanza lo sciacallaggio della destra. Per mesi Salvini, Meloni e Taiani si propongono per aperturisti ad ogni costo. Non pensano minimamente ai duecentocinquanta morti al giorno che ancora i bollettini consegnano ogni sera. Aprire aprire aprire!

Ci saranno morti? Pazienza. Si guarda al numero di votanti che riescono ad accaparrare cavalcando la protesta di pizzaioli, ristoratori, baristi caffettieri, giostrai. Meloni contro Salvini. Salvini e Meloni contro Letta. Letta contro Conte. Tutti contro tutti per un’ora di notte di apertura. Sono le grandi idee politiche del tempo. Ecco i grandi Marx e De Gasperi del nostro tempo. Meglio se duecentocinquanta vecchi tirano le cuoia ogni giorno, perché aiutano i conti delle casse previdenziali. I vecchi non sono utili, sono rompicoglioni, catarrosi e invalidi. E tutti pensionati!

Sarebbe bello bruciarli come gli ebrei al tempo di Hitler o come nelle pire sul Gange. Ma da vivi.
Per costoro il Covid ha i colori delle prossime consultazioni elettorali. È ciò che conta, mettere le mani su Roma e su Milano. E Draghi è un rallentatore di balli. Uno che invoca la calma e l’oculatezza. Sì, i numeri contano, ma non si può governare sotto la spinta della pietà. Che vecchi e africani che sfidano il Mediterraneo tirino le cuoia. Come i siriani che vogliono a tutti i costi scappare dalle bombe. Tanto ci sono uomini e quasi uomini. E la pelle di un giovane Occidentale vale venti pellicce di indiani, persiani, siriani, palestinesi, africani e pensionati. Chi ha detto che siamo tutti uomini?

Il dramma è che dimenticheremo presto. In questi giorni si dice che nulla sarà più come prima. Mai frase fu più bugiarda. Basterà affacciarsi nelle strade della movida e nei parchi, per imbattersi in una folla spaventevole di gente senza mascherine, assembramenti di adolescenti e di giovani che si ritengono immortali, vecchi bacucchi che sfidano il pericolo in capannelli densi di curiosità.

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