Il punto
Recovery Plan, forse è l’ultimo treno: guai a perderlo
Il vero rischio è che il Recovery diventi un mero elenco della spesa dove fare entrare tutto ciò che le risorse pubbliche ordinarie non hanno saputo attuare negli ultimi decenni
Ciò che colpisce del Recovery Plan (o Piano nazionale di ripresa e resilienza) è che, a dispetto del nome anglofono o della forse anche peggiore barocca trasposizione italiana, in realtà non contiene nulla di davvero eccezionale. Per essere un piano di interventi straordinari, si pone in realtà gli obiettivi «normali» di una amministrazione pubblica. Adeguare l’offerta di asili nido e scuole dell’infanzia, riformare la burocrazia, eco-ammodernare le infrastrutture energetiche, rafforzare la rete ferroviaria nazionale - giusto per fermarsi ai titoli più qualificanti - dovrebbero essere scopi programmatici di qualunque governo, con il sostegno di qualunque amministrazione locale degna di questo nome.
Dovrebbe fare riflettere il fatto che l’Italia debba approfittare di uno stanziamento europeo straordinario e forse irripetibile per porsi finalmente il problema - ad esempio - di collegare il Paese in maniera decente dall’Adriatico al Tirreno, e non solo da Nord a Sud. Una progettualità scomparsa con l’avvento dei Savoia e mai più riproposta. Ci sono voluti 150 anni per ragionare seriamente sulla linea ferroviaria Bari-Napoli.
Il vero rischio, dunque, è che il Recovery Plan diventi un mero elenco della spesa dove fare entrare tutto ciò che le risorse pubbliche ordinarie non hanno saputo attuare negli ultimi decenni, a fronte di risorse che rischiano di rivelarsi addirittura modeste se paragonate alle aspettative (anche se all’Italia tocca la fetta più grande della torta europea).
Su tutto aleggia lo spettro della burocrazia. L’Italia è stata capace di non spendere decine di miliardi dei fondi pluriennali europei, tornati a Bruxelles negli scorsi anni o assegnati a progetti che procedono con una lentezza esasperante. Mario Draghi lo sa bene e per questo sta dedicando sforzi supplementari proprio alla semplificazione delle regole amministrative, cogliendo al balzo l’occasione. Ma è giusto evidenziare che il problema non è solo italiano.
Anche il sistema burocratico europeo non scherza in quanto a complessità, come sta emergendo nella gestione dell’emergenza sanitaria, con gli inevitabili riflessi nella genesi e nelle regole del Recovery Fund. Basti prendere il pasticcio dei vaccini e comparare la goffaggine dell’Ue con la rapidità degli Usa e la risolutezza della Gran Bretagna post Brexit, giusto per fare paragoni omogenei tra sistemi politici democratici con pari capacità economiche.
La Ue deve concertare il calvinismo diffidente dei Paesi nordici con le esigenze economiche di quelli meridionali e contemperare le varie sensibilità nazionali ancora restìe a cedere il passo agli interessi generali europei. È inaccettabile che in piena pandemia chi governa 500 milioni di cittadini debba farsi venire il dubbio se spendere qualche miliardo in più per avere nel più breve tempo possibile tutti i vaccini che servono.
L’atteggiamento dove la forma prevale sulla sostanza rischia di sgonfiare il Recovery Fund prima ancora che diventi un polmone supplementare per un’economia e una società sofferenti.
Il piano è triennale e prevede lo stanziamento di 750 miliardi di euro; gli Usa di Biden hanno avviato investimenti per 3mila miliardi di dollari, il quadruplo dell’Europa. L’Italia potrà contare su circa 200 miliardi, ma di questi soldi si cominceranno a vedere le disponibilità non prima di luglio, con l’emissione del primo debito europeo comune per il 13% del programma. Ci voleva una pandemia per convincere i tedeschi (ma non è detta l’ultima parola, visto che c’è un giudizio in corso in Germania).
Va bene, visti i tempi non c’è da andare molto per il sottile. Se per avere un asilo in più o un binario nuovo bisogna «ringraziare» un virus assassino, così sia. Abbiamo imparato ad accontentarci. Ma guai ad abbassare la guardia, perché questa potrebbe davvero essere l’ultima occasione da sfruttare.