IL PUNTO
Investire nelle aree deboli è giusto e conveniente
Al Sud, annuncia il governo, andrà il 40% della dotazione del Recovery Plan e non il 34% come ipotizzato usando il parametro della popolazione residente
Le buone notizie negli ultimi tempi sono merce rara, al punto che quando arrivano viene quasi da chiedersi dove sia la fregatura. Quindi l’annuncio con il quale la ministra Carfagna ha spiegato che al Sud arriveranno per il Recovery Fund più soldi di quanto inizialmente previsti, da un lato è stato accolto con generale soddisfazione, dall’altro ha scatenato gli esperti alla ricerca del dettaglio rivelatore.
In effetti i numeri non sempre dicono tutta la verità. Al Sud, annuncia il governo, andrà il 40% della dotazione del Recovery Plan e non il 34% come ipotizzato usando il parametro della popolazione residente. Ma resta da capire se nei calcoli rientrano (ed eventualmente, per quanto) anche i danari degli altri interventi europei come ad esempio i Fondi di coesione.
Tuttavia questi soldi prima ancora di arrivare, anzi prima ancora di essere assegnati, scatenano comprensibili appetiti e interessi. Gli ultimi in ordine di tempo a farsi sentire sono stati cinquecento sindaci guidati dal primo cittadino di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro: sono i Comuni a dover gestire i progetti e i flussi destinati a finanziarli, ha detto a nome dei colleghi.
Che ci sia un problema di gestione è fuori di dubbio. Non a caso il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ieri ha tenuto a chiarire che il Recovery Plan sarà accompagnato dal varo di procedure amministrative semplificate. E nelle scorse settimane i ministri Brunetta e Carfagna hanno annunciato l’assunzione al Sud di 2.800 persone qualificate (481 per la Puglia) destinate proprio a far funzionare il piano di rilancio pensato dall’Unione Europea per la ripresa economica post pandemia. Anche se la pandemia è tutt’altro che passata.
Figure professionali nuove e procedure amministrative snelle sono sicuramente due elementi positivi per invertire la tendenza degli ultimi anni, con fondi europei stanziati e mai usati dal Sud Italia, paradossalmente incapace di spendere a fronte di un disperato bisogno di investimenti.
Quindi se il governo Draghi individua una nuova forma di gestione di progetti, appalti, lavori e rendiconti - magari coinvolgendo e responsabilizzando di più anche il mondo imprenditoriale - sarebbe fondamentale che le nuove procedure riguardassero anche risorse e canali già in essere, senza aspettare la piena operatività del Recovery Plan. E vediamo il perché di questo auspicio. Il piano europeo straordinario vale 750 miliardi di euro in tre anni. L’Italia fa la parte del leone con poco più di 190 miliardi di cui il 40% destinato trionfalisticamente al Sud, cioé poco più di 75 miliardi. Ma arrivano subito? No. Quando tutti i parlamenti dei Paesi europei avranno autorizzato il programma di intervento, l’Unione potrà emettere le obbligazioni sul mercato finanziario, il primo storico «debito comunitario». Non se ne parla prima di luglio e per l’occasione sarà erogato ai singoli Stati un anticipo del 13%.
Insomma, non facciamoci illusioni. Per il 2021 i soldi del rilancio arriveranno con più lentezza di quanto crediamo o speriamo. Invece sarebbe prudente non perdere di vista i consolidati canali di erogazione europea a partire dai Fondi per lo sviluppo e la coesione: degli oltre 47 miliardi del piano 2014-2020, alla fine dello scorso anno risultava speso solo il 6,7% come ha rilevato lo stesso Mario Draghi. E non è il caso di considerare più questo flusso come un intervento straordinario. I soldi statali ormai finanziano a malapena la spesa corrente, come ben sanno le amministrazioni locali. Per investimenti e infrastrutture, soprattutto al Sud, le risorse ordinarie sono quelle europee. Ecco perché sciuparle o perderle è doppiamente delittuoso.
Infine, una considerazione generale che forse potrebbe stare a monte di qualsiasi discorso: questi soldi sono sufficienti? Bastano 750 miliardi in tre anni in tutta Europa, di cui 190 in Italia e 76 al Sud?
Non sembri una provocazione. Guardando al passato, la crescita impetuosa dell’Italia tra il 1950 e il 1973 si è nutrita di una accelerazione economica che ha fatto fiorire il Mezzogiorno con incrementi del pil a doppia cifra. La Germania, da sola, dopo la caduta del muro ha programmato in trent’anni investimenti per quasi 350 miliardi degli attuali euro per risollevare dalla miseria la ex Ddr, facendo registrare già dal 1990 un +4,5% del pil. Quindi investire nelle aree svantaggiate è sempre un buon affare.