L'editoriale
Sanità e scuole, le due sfide che qualificano uno Stato
In un Paese meno ossessionato dal Potere, meno concentrato sui nomi e sugli incarichi, anche la persona più distratta avrebbe giudicato una miseria la cifra di nove miliardi destinati alla sanità
La lite sul Recovery Plan, ossia sulle misure italiche per contrastare gli effetti della pandemia, è più istruttiva di dieci biblioteche di politologia. Da noi ci si accapiglia più su chi deve fare (qualcosa) che su cosa bisogna fare. In un Paese meno ossessionato dal Potere, meno concentrato sui nomi e sugli incarichi, anche la persona più distratta avrebbe giudicato una miseria la cifra di nove miliardi destinati alla sanità. Ma, come, gli ospedali sono al collasso, la sanità territoriale è svanita, i medici stanno diventando una rarità come il Gronchi rosa, e i pianificatori nazionali si limitano a prevedere solo nove miliardi, diconsi nove (su 209 complessivi), per le spese sanitarie? Ha ragione da vendere il ministro della salute, Roberto Speranza, che giustamente chiede molto di più. Epperò, il braccino corto sui finanziamenti per le opere e le iniziative sulla sanità la dice lunga sulle priorità della classe politica italiana e sui criteri che sottendono alla spesa pubblica. Il chi deve agire, si chiami task force o cabina di regia, appassiona, mette a rischio i governi, fa discutere e accapigliare molto di più del cosa fare in termini di progetti e interventi concreti.
Ci si aspettava, tuttavia, dagli effetti collaterali della pandemia perlomeno un piccolo segnale di discontinuità nei riguardi dei tradizionali vizi gestionali, tutti orientati, appunto, a privilegiare gli organigrammi rispetto ai programmi, ma, per certi versi, la tentazione di proseguire con i vecchi metodi è dura a morire, non si è mai contratta, anzi è cresciuta a dismisura. Di conseguenza, neppure una sanità sotto assedio riesce ad attirare più soccorsi (finanziari) e soccorritori (medici e decisori vari) di quanto meriterebbe.
Lo abbiamo ripetuto altre volte. Se c’è un settore su cui lo Stato non dovrebbe azionare il freno, semmai dovrebbe spingere sull’acceleratore degli investimenti, questo settore è la sanità (insieme con la scuola). Invece lo Stato preferisce allargarsi su molti altri fronti, secondari, indebitandosi a oltranza, e disapplicando le logiche aziendali e i criteri imprenditoriali. Sulla sanità, al contrario, lo Stato spesso tende a ragionare come il più occhiuto dei ragionieri, vedi la vicenda dei medici specializzandi che neppure a Natale sapranno quando potranno affacciarsi in corsia.
Del resto, se, persino in piena emergenza sanitaria, il governo corre il pericolo di fare anzitempo le valigie a causa delle frequenti liti nella coalizione, ciò sta a significare che nemmeno il principio di opportunità, un tempo elemento cardine (e frenante) di ogni decisione politica dirompente, riesce a placare i bollenti spiriti dei crisaiòli più cocciuti. Il mantra della visibilità, che poi nasconde la voglia di occupare poltrone e scrivanie, fa il resto. Di conseguenza, non c’è pandemia che tenga. Se chi vuole la crisi decide di andare fino in fondo, andrà fino in fondo.
Diciamolo. Non è uno spettacolo edificante. È vero che la classe politica, per l’80 per cento, rappresenta il cittadino medio di una nazione, ma è altrettanto vero che la classe politica, diciamo per regole di ingaggio, dovrebbe svolgere al meglio il proprio ruolo di guida, cioè dovrebbe rivelarsi sempre più attrezzata e lungimirante di chi viene amministrato. Invece, anche su questo versante, il piatto piange. L’idea di sussidiare, anziché di stimolare, non è una bella idea. O, perlomeno, non può trasformarsi in una pratica costante, buona per tutte le stagioni. L’idea di sussidiare tutti sempre e comunque è destinata a inculcare in un numero sempre maggiore di persone la convinzione che tutto sia dovuto, che il mondo sia una fabbrica di diritti e di assistenze e che i doveri facciano parte del passato, non più del presente, figuriamoci del futuro.
Lo Stato, in Italia, si sta riprendendo la scena. Sta rioccupando i settori da cui era uscito, anche a costo di entrare in conflitto con regole europee poco propense ad avallare gli aiuti pubblici distorsivi della concorrenza. La concorrenza è un valore, dal momento che costituisce la massima procedura di scoperta e di conoscenza mai escogitata dalla mente umana. Distorcere la concorrenza significa interferire pesantemente nell’allocazione delle risorse, con gravi contraccolpi per l’interesse generale, a iniziare dalle esigenze dei cittadini-consumatori.
Purtroppo, più la classe politica si autoalimenta e a volte si autodistrugge con le lotte di potere, più, paradossalmente, s’allarga l’ingerenza metà statalistica metà assistenziale nella società italiana. Un’ingerenza tutt’altro che sopportabile sotto il profilo economico, specie per le prossime generazioni su cui graverà un carico pazzesco di debiti pregressi.
La pandemia in atto ha quasi dissolto il fantasma del debito pubblico, diffondendo la sensazione che il debito pubblico non sia più una iattura terribile e che la stessa Europa non sarà più così inflessibile come un tempo. Nulla di più sbagliato e di più azzardato. Il debito pubblico sta lì come un macigno e prima o poi qualcuno lo dovrà rimborsare, sotto forma di tagli o di nuove tasse.
Ecco perché sconcertano la superficialità di alcune scelte e l’irresponsabilità di alcuni comportamenti, ad esempio nella sanità. Il Covid ha dimostrato ancora una volta che la salute e l’istruzione richiedono un’attenzione particolare da parte delle istituzioni pubbliche, altro che briciole negli stanziamenti pubblici. Ma sono in pochissimi a battersi per ospedali e scuole, a lottare perché queste due infrastrutture facciano la parte del leone nella destinazione del Recovery Fund.
In effetti, si stenta a credere. Ci si azzuffa sulla task force che dovrà dirottare i fondi europei. Ma si soprassiede sull’esiguità dei quattrini da inviare per migliorare sanità e istruzione, le due materie di studio e di azione più congeniali a uno Stato degno di essere considerato tale.