Il commento

Felicità (im)possibile a macchia di Leopardi

Michele Mirabella

Venditore- Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

Così comincia una famosa pagina della letteratura italiana: è annoverata nelle “Operette morali” di Leopardi. Porta il titolo: “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”. Ignoro se, a parte le poesie, nella scuola di oggi si parli ancora dello “Zibaldone”, delle “Operette morali”. Nei programmi della vecchia scuola, le “Operette morali” si piluccavano, prima, ed erano, poi, confinate nel certame obbligato degli esami di maturità, ma la voce dei maturandi, nei corridoi dei licei, invitava a trascurarne lo studio e a farsi bastare una sbrigativa lettura.

Il dialogo di cui ho trascritto l’incipit era il più breve della raccolta e, dunque, il preferito per rispondere all’immancabile e fatidico invito a scegliere un argomento “a piacere” come si esprimevano le indulgenti professoresse. Con i professori, la trattativa filava meno liscia. Ma questo è un altro discorso. Quello attuale, dei discorsi, volge a contestualizzare questa mia sommessa citazione letteraria nell’attualità malinconica e burrascosa, al tempo stesso, che stiamo vivendo. E che stanno vivendo gli studenti di ogni ordine e grado, costretti dalla pandemia, a frequentare una scuola virtuale che nega, necessariamente, la prossimità umana e restringe il colloquio aperto tra studenti e insegnanti nelle more, paradossalmente sconfinate, dell’informatica. Il fatto è che non possiamo replicare il “liceo” aristotelico, sarebbero in troppi, studenti e maestri e che il “Peripato” non è a portata di piede delle moderne strutture scolastiche.
Mi è venuto in mente di rileggere insieme ai miei lettori le pochissime pagine del dialogo. Dunque, in una città innominata si incontrano il venditore di almanacchi e un passeggere.

Passeggere- Almanacchi per l’anno nuovo?
V. Si signore. P. Credete che sarà felice quest’anno nuovo? V. O illustrissimo si, certo. P. Come quest’anno passato? V. Più, più assai. P. Come quello di là? V. Più più, illustrissimo. P. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? V. Signor no, non mi piacerebbe. P. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi? V. Saranno vent’anni, illustrissimo. P. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo? V. Io? non saprei. P. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? V. No in verità, illustrissimo. P. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? V. Cotesto si sa. P. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? V. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse. P. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati? V. Cotesto non vorrei. P. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? V. Lo credo cotesto. P. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo? V. Signor no davvero, non tornerei. P. Oh che vita vorreste voi dunque? V. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti. P. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo? V. Appunto. P.

Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? V. Speriamo. P. Dunque, mostratemi l’almanacco più bello che avete. V. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere- Ecco trenta soldi. Venditore- Grazie, illustrissimo: a rivederla.

Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
Istruttiva la lettura del dialogo in cui trovo risposta a quanti, me compreso, si lasciano andare all’improperio scaramantico contro la perfidia di un anno, quello che volge al termine, che ha ospitato la sventura dell’epidemia. Prendersela con le stelle, quando le colpe sono dell’umanità, è esercizio comodo e vile, ammettiamolo. Vediamo, piuttosto, di rintracciare i nessi delle responsabilità umane nella demolizione del pianeta terra trasformato in uno stanco satellite del sole, oberato di veleni e abitato da autolesionisti rissosi e, spesso, feroci tra di loro.

L’antropocene va governato con saggezza. È tempo di pensarci. Nessuno è ancora in grado di rispondere alla domanda inquietante che preferiamo non porci, circa le responsabilità degli abitanti del pianeta, almeno nella parte detta del “primo” mondo, del disastro ambientale, del clima forsennatamente vessato da un impulso cieco e invadente alla tirannide del mercato in un superliberismo angoscioso. Le pandemie possono avere dei colpevoli nelle loro vittime.

In un appunto dello Zibaldone, Leopardi esprime lo stesso pensiero che ispira il Dialogo: la felicità non è legata a qualcosa di reale che stiamo vivendo o abbiamo già vissuto, ma solo all'attesa, alla speranza di ciò che ci immaginiamo e ci illudiamo possa accadere. E, io aggiungo, che facciamo in modo che possa accadere. Dipende anche da noi: gli abitanti dell’immane villaggio. Mi permetto l’aggiunta perché mi sottrassi alla condivisione del pessimismo cosmico leopardiano in tempi non sospetti. Ne scrissi nel mio tema della maturità. Fui promosso.
Questo articolo lo dedico al giornale su cui mi lasciano scrivere. In questo tempo difficile, alla “mia” Gazzetta del Mezzogiorno.

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