L'editoriale

Stato-regioni, le premesse di una guerra annunciata

Giuseppe De Tomaso

Ovviamente, la sanità (con la scuola) è il Colosseo in cui il duello tra Stato e Regioni va in onda con armi e colpi sempre più forti

Mettiamo le mani avanti. Se oggi un big politico fortunato o un opinionista tele-accorsato o, come va di moda, un influencer stracliccato, promuovessero un’iniziativa per porre fine al rimpiattino senza fine tra Stato e Regioni, l’opinione pubblica - a ragione - consiglierebbe loro di sottoporsi a un test cerebrale presso le più prestigiose case di cura della materia. Con tutte le tragedie umane in atto, provocate, e aggravate, dall’incarognita fase due del Covid, l’idea stessa di aprire l’ennesino tavolo su una questione cruciale della nostra architettura di poteri, meriterebbe una risposta più pesante di una scomunica. «Si vede che hanno la testa fresca», commenterebbe la classica «casalinga di Voghera», la cui paternità letteraria vede tuttora in ballottaggio (postumo), per l’attribuzione, due pezzi da novanta della cultura nazionale: Alberto Arbasino (1930-2020) e Beniamino Placido (1929-2010).
Ok. Non è certo il momento migliore per sollecitare Lorsignori a mettere ordine nelle competenze tra Stato e Regioni, la cui conflittualità, in questi mesi di pandemia-pandemonio, ha toccato vette finora inesplorate. Ma prima o poi bisognerà riavvolgere il nastro, o la matassa, per sciogliere tutti i nodi che bloccano, o complicano, anche il provvedimento più semplice in gestazione.

Più passa il tempo, più la reputazione della riforma (2001) del Titolo Quinto della Costituzione - tesa a imprimere una fisionomia federalistica allo Stato italiano, per spostare da Roma alla periferia i centri di spesa e di decisione - precipita sotto i tacchi. Né poteva essere altrimenti. Di fatto quella riforma, il cui obiettivo politico era togliere voti al leader leghista Umberto Bossi cavalcando i temi a lui più cari, conteneva in nuce tutti i presupposti che avrebbero generato risse istituzionali a oltranza tra i protagonisti della nostra storia, ossia tra Stato e Regioni. Basti ricordare che la riforma del Titolo Quinto stabilì quali fossero le competenze specifiche dello Stato, lasciando alle Regioni il compito di occuparsi di tutte le altre non citate nel testo. Non ci voleva il mago Otelma per prevedere che in tutti i campi di intervento non assegnati in forma esclusiva allo Stato centrale, si sarebbe scatenata una mischia al cui confronto quelle che caratterizzano le gare di rugby richiamano le galanterie della Belle Epoque. Infatti, i contenziosi partoriti dal nuovo Titolo Quinto hanno fatto e tuttora fanno la fortuna di numerosi studi legali, che, comprensibilmente, ringraziano per il dono ricevuto.

Ovviamente, la sanità (con la scuola) è il Colosseo in cui il duello tra Stato e Regioni va in onda con armi e colpi sempre più forti. La riforma costituzionale del 2001 svuotò i poteri dello Stato centrale a vantaggio delle Regioni, ormai saliti al rango di repubblichette o staterelli. Ma il grosso delle tasse restava allo Stato, mentre alle Regioni veniva attribuito il potere di decidere su una montagna di argomenti. Un manicomio. Che è all’origine dei continui dissapori (eufemismo) tra governo nazionale e istituzioni territoriali. L’estenuante braccio di ferro sulle misure anti-virus ha solo reso pubblico e definitivo, in diretta tv, un conflitto che era già contenuto nella famigerata riforma concepita per neutralizzare la Lega di Bossi.

Ripetiamo. Purtroppo l’aggravarsi dello scenario pandemico non agevola la richiesta di rimediare in fretta al pasticcio costituzionale confezionato una ventina di anni addietro. Anzi, tutto lascia intendere che quella riforma forse avrà vita lunga, anche perché, nonostante la cattiva e costosa prova da lei fornita, quella riforma dispone di schiere di avvocati difensori che manco Donald Trump. E però non si può tacere. Prima o poi, quando il virus si sarà arreso al vaccino, si dovrà affrontare il capitolo della distribuzione, della ridefinizione dei poteri tra Stato e Regioni. Non foss’altro perché la cronaca rimane e, presumibilmente, rimarrà prodiga di «casi» al riguardo. Il gioco a rimpiattino, la pratica dello scaricabarile sono destinati a durare in eterno se non si azionerà il freno contro l’andazzo che contraddistingue le relazioni Stato-regioni: tutti vogliono i poteri (nomine e soldi), tutti rifuggono le responsabilità (misure impopolari). È un ping-pong che va assolutamentinterrotto.
Anche il recente caso Calabria (il commissario anti-Covid ignaro di dover predisporre il piano anti-Covid) è, tutto sommato, figlio della confusione e della contrapposizione dei poteri nelle politiche per la salute. Probabilmente il generale-commissario, pur nominato dallo Stato centrale, e provvisto di carta bianca, non voleva entrare in urto con la struttura regionale calabrese, che avrebbe dovuto eseguire le sue direttive. Di qui la sua oblomoviana passività. Chissà.

Di certo, il pastrocchio costitituzionale del 2001 non favorisce la chiarezza, né facilita l’individuazione della filiera delle responsabilità nelle scelte per la sanità. Di conseguenza si sta rivelando un inatteso, insospettabile alleato del Coronavirus, e un indomabile nemico di quanti combattono il Covid.
Già. Come si potrà accedere - come pure si sarebbe dovuto fare da sùbito - ai quattrini del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) se il marasma istituzionale nella sanità è quello che è e se, ad esempio, anche per colpa di questa babilonia, i vertici della sanità calabrese non conoscono nemmeno il numero delle loro terapie intensive? Altro che progetti per ottenere i soldi del Mes. In alcune aree del Paese siamo ancora al Medio Evo. Anche per gli errori di una riforma che ha peggiorato il peggio.

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