Il commento
Il vento del Sud e il fronte del Nord
Oggi il movimento di Matteo Salvini, respinto dall’elettorato meridionale, appare in declino e rischia di regredire alla precedente dimensione territoriale: quella nordista
Prima, la sconfitta alle ultime regionali in Puglia e in Campania. Poi, l’elezione del nuovo sindaco di Matera, il grillino Domenico Bennardi. E infine, l’uscita dell’eurodeputato pugliese Andrea Caroppo, in seguito alla quale la Lega non è più il primo partito a Strasburgo. Oggi il movimento di Matteo Salvini, respinto dall’elettorato meridionale, appare in declino e rischia di regredire alla precedente dimensione territoriale: quella nordista che aveva abbandonato nel tentativo, per ora fallito, di diventare una forza politica nazionale.
«Chi è causa del suo mal, pianga se stesso», ammonisce un vecchio proverbio. E in effetti - a parte l’ingenerosa polemica di Salvini verso il candidato di centrodestra, Raffaele Fitto, alla presidenza della Regione Puglia - il Carroccio sembra pagare la campagna propagandistica a favore della cosiddetta “autonomia differenziata”.
Campagna propagandistica che vuol dire in pratica più soldi al Nord e meno al Sud. La “secessione dei ricchi”, insomma, come l’ha definita efficacemente l’economista barese Gianfranco Viesti.
Il “vento del Sud” si contrappone, dunque, a quello del Nord o meglio del Centro-Nord che rivendica l’autonomia contro la solidarietà e la coesione nazionale. Gli elettori meridionali, a quanto pare, l’hanno finalmente capito. Nonostante il maquillage che ha tolto alla Lega la denominazione nordista e gli ammiccamenti elettorali del suo leader, il Carroccio resta il capofila di uno schieramento che oltre al Veneto di Zaia e alla Lombardia di Fontana, comprende al momento altre sei regioni di centrodestra o di centrosinistra: l’Emilia Romagna di Bonaccini, il Piemonte, la Liguria, la Toscana, le Marche e l’Umbria.
Ma in realtà l’autonomia differenziata altro non è che un paravento per dissimulare la pretesa di ottenere più fondi dallo Stato, a scapito del Mezzogiorno e dell’unità nazionale. In buona o cattiva sostanza, la verità è che le regioni ricche vogliono diventare sempre più ricche mentre quelle povere rischiano di diventare sempre più povere. E dopo decenni di abbandono e di sopraffazione, il Sud non può tollerarlo né tantomeno può tollerare che adesso il fronte del Nord metta le mani sui finanziamenti europei del Recovery Fund.
Non lo può accettare non solo e non tanto per difendere i propri legittimi interessi, vale a dire per ottenere ciò che gli spetta in termini di investimenti, infrastrutture, occupazione, benessere, qualità della vita. Ma anche per tutelare il superiore interesse nazionale che impone di annullare o ridurre il gap fra le “due Italie”, in funzione della ripresa e dello sviluppo di tutto il Paese. Il pericolo ancora maggiore, però, è che l’autonomia differenziata diventi il cavallo di Troia per disarticolare la Repubblica italiana, a furia di soffiare sul fuoco delle rivalità e degli antagonismi territoriali: le tensioni fra il governo centrale e le Regioni sulla strategia per contrastare l’epidemia di coronavirus costituiscono in questo senso un preoccupante segnale d’allarme.
Torniamo qui all’infausta riforma del Titolo V approvata nel 2001 dal centrosinistra con una manciata di voti, nella rincorsa elettorale alla campagna leghista per il federalismo fiscale ovvero autonomia finanziaria. È proprio questa l’origine della forza centrifuga che minaccia di disgregare il Paese dei “mille campanili”: una ricchezza di storia e di cultura che rischia di degenerare invece in una condizione di debolezza e di fragilità.
Varata sotto il governo di Giuliano Amato e confermata da un referendum popolare durante il secondo governo Berlusconi, quella riforma ha ampliato in misura considerevole le materie su cui le Regioni possono legiferare, aumentandone le competenze e le funzioni. Un decentramento che ha fatto crescere vertiginosamente la spesa pubblica (circa il 36% in più) e anche il contenzioso con lo Stato rimesso alla Corte costituzionale.
Non sbagliava, allora, Matteo Renzi quando sottopose ai cittadini il quesito sulla revisione del Titolo V nel referendum costituzionale del 2016. Al netto dei suoi errori di personalizzazione e di arroganza che connotarono di autoritarismo la consultazione popolare, quella era una riforma della riforma tanto utile quanto necessaria. Fu un errore non aver “spacchettato” il quesito dagli altri quattro e fu un errore non approvare la revisione. Un’occasione persa che chissà se e quando si ripresenterà.
Ora, accantonando le pretese sovraniste e anti-europee di matrice leghista, qual è per l’Italia la stella polare? Cioè, il punto di riferimento più sicuro per la nostra travagliata navigazione nel mare in tempesta dell’era post-Covid? Evidentemente, e a maggior ragione di fronte alla crisi economica e sociale prodotta dalla pandemia, non può che essere l’Europa, l’Unione europea, con tutti i suoi pregi e difetti. Quella stessa Ue da cui dovremmo ricevere i 209 miliardi di euro del Recovery Fund; da cui potremmo ricevere i 37 miliardi del Mes sanitario praticamente a tasso zero e da cui riceveremo i due miliardi già stanziati dalla Banca europea per gli investimenti a favore dell’alta velocità Bari-Napoli (chiamiamola pure così su questo giornale, perché è l’unico che può anche permettersi d’invertire i due poli della linea ferroviaria, senza urtare la suscettibilità della capitale partenopea).
Il Mezzogiorno ha bisogno (e diritto) di essere messo alla pari con il Centro-Nord, per poter competere senza handicap con le altre regioni e con il resto dell’Unione. Questa è la “nuova frontiera” del Vecchio Continente. Piuttosto che intonare le geremiadi del vittimismo, ispirato da un vetero-meridionalismo sterile e controproducente, ripetiamolo ancora una volta come un mantra: non si salva l’Italia senza il Sud e non si salva l’Europa senza l’Italia.