L'analisi
La democrazia diretta palla al piede dei suoi adepti
Democrazia diretta significa sublimazione dell’asimmetria informativa
La crisi dei Cinque Stelle non dipende dalla leadership del MoVimento, e neppure dal programma o dalle alleanze nazionali/territoriali. La crisi del M5S, localmente attutita da successi elettorali come quello di Matera, discende proprio dall’obiettivo primordiale della sfida grillina: la democrazia diretta. Ossia dal succo dell’insegnamento di Jean-Jacques-Rousseau (1712-1778), ideologo ispiratore della formazione politica di maggioranza relativa oggi in Parlamento.
Già il fatto che il pensatore francese avesse invertito i poli della civiltà e della barbarie esaltando il «buon selvaggio» (sic) dell’antichità e contestando l’idea della storia come progresso, avrebbe dovuto mettere sull’avviso anche gli spiriti meglio predisposti nei suoi confronti. Per Rousseau, la civiltà industriale, la prosperità economica, lo sviluppo artistico e le stesse conquiste sanitarie costituivano un passo indietro, non un passo in avanti, verso la felicità dei singoli e dei popoli. Ma sposare l’idea di Rousseau della democrazia diretta rappresentava un azzardo non solo per il sistema costituzionale che si intendeva cambiare, ma anche o soprattutto per gli stessi autori di questa radicale proposta. Infatti.
Democrazia diretta significa fine di ogni mediazione, e tutti conoscono l’importanza del fattore mediazione nel processo decisionale. Senza mediazione, il rischio del conflitto, fisico e militare, sarebbe pressoché quotidiano.
Democrazia diretta significa sublimazione dell’asimmetria informativa. Non tutti sanno tutto di ogni argomento. Come sarebbe possibile governare società sempre più complesse attraverso un referendum a oltranza su problemi sovente ignoti anche ai cosiddetti esperti?
Ma democrazia diretta significa, soprattutto, eutanasia del pluralismo istituzionale. E, però, la storia del pensiero politica dimostra il contrario. Dimostra che più è esteso, diffuso, il pluralismo istituzionale, più una nazione può definirsi e ritenersi libera e democratica. Viceversa, meno è radicato il pluralismo istituzionale, più uno Stato è autoritario e totalitario, o entrambe le cose. Non a caso, tutte le forme di democrazia diretta finiscono, come, in fondo, auspicato dallo stesso Rousseau, per essere eterodirette da una Volontà Generale, sotto la cui astrattezza concettuale imperversa la cinica regia, la callida concretezza (eufemismo) di un Grande Fratello.
La storia insegna che il primo, spontaneo nucleo associativo-organizzativo degli esseri umani si chiama tribù. Tuttora nessuna mente umana è in grado di sostenere più di 150 relazioni amicali con i propri simili. Fidarsi dell’estraneo, dell’invisibile, della persona che non si conosce, ha rappresentato e rappresenta la vera rivoluzione epocale, giuridica, politologica e costituzionale confluita nella cosiddetta Società Aperta. E la Società Aperta si distingue dalla Società Chiusa per l’elevato numero di appartenenze, oltre che, si capisce, di istituzioni. Per altro, ogni persona, in una Società Aperta, esprime più appartenenze (famiglia, lavoro, religione, hobby eccetera). Insomma, pensare di incasellare l’individuo in un unico gruppo, agguerrito fino a denti per difendere i propri interessi, significa concimare il terreno del tribalismo, che poi, salendo salendo, toccherà i piani superiori del territorialismo, del localismo, del sovranismo e del nazionalismo.
Invece, la coesistenza pacifica, premessa per il progresso generale, si ottiene demolendo questi princìpi, si ottiene smantellando la stessa idea mitologica dello Stato benefattore, visto che, per dirla con il sociologo americano Charles Tilly (1929-2008), se la guerra ha creato lo Stato, lo Stato ha creato la guerra.
La democrazia diretta, a dispetto delle migliori intenzioni, è destinata a sfociare immancabilmente in un mare di incognite e di perversioni. È destinata a produrre le conseguenze già sperimentate in passato, perché si può rinnovare la tecnologia, ma la natura umana no, quella è eterna e immodificabile come il cielo. È destinata sempre, la democrazia diretta, a ritorcersi contro i suoi stessi cantori, vedi le vicissitudini del M5S non appena si è sgonfiata la bolla elettorale di due anni addietro.
L’ossessione dell’identità è assai pericolosa per le democrazie e per le libertà. Scoraggia il confronto costruttivo e la contaminazione (benefica) reciproca. Viceversa, l’identità incoraggia il familismo, il già citato tribalismo, alimenta il criterio dell’amico/nemico, portando acqua al mulino del giurista tedesco (filonazista) Carl Schmitt (1888-1985), cui si deve il concetto «Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei». L’ossessione dell’identità eccita gli animi in ogni micro o macrocosmo assembleare. Se poi questa agorà permanente si trasferisce sulla Rete, come avviene da un paio di lustri, il combinato disposto tra rissa iniziale e diktat finale è assicurato.
Conclusione. La democrazia diretta non è una miscela esplosiva solo per gli Stati democratici. È, paradossalmente, una bomba ingestibile per gli stessi partiti e movimenti che danno voce e linfa, con i loro eletti, all’offensiva contro la democrazia rappresentativa. Altro che sorteggio dei parlamentari, sbocco inevitabile e grottesco del direttismo decisionale. Bisognerebbe, invece, rafforzare l’impalcatura rappresentativa, la cultura della delega, nell’interesse di tutti, anche di coloro che, finora, hanno combattuto nel nome di Rousseau.