La riflessione
Quando la televisione «abbassa». Ma non tutti
Ho cercato tramite la Gazzetta di sfruttare la mia popolarità per denunciare un fatto irriverente a Santo Spirito. Ma non è servito a nulla
Domenica 9 agosto 2020, sulla Gazzetta, ho voluto occuparmi di una faccenda interessante i cittadini della frazione di Bari: Santo Spirito. Come costoro sanno, il borgo marinaro è vittima di stravaganti decisioni imposte dalle autorità che riguardano il traffico e la viabilità: uno scempio urbanistico, ambientale e sociale che deturpa, nella brutalità perpetrata senza curarsi delle opinioni dei cittadini e dei loro diritti e doveri, un paesaggio di quieta bellezza.
Devo confessare la debolezza: ho creduto, per una volta, di sfruttare quella popolarità che mi deriva, non tanto dalla lunga carriera in teatro, ma dalla visibilità televisiva, che, spesso, ho considerato come un ovvio combinato disposto della presenza nell’immenso palcoscenico elettronico. Ammetto di aver voluto farlo apposta: per una volta, mi sono detto, sfrutto la notorietà per una causa che credevo e credo giusta: aiutare le autorità ad evitare stupidaggini mostruose e provocare la reazione di quelli che condividono, e son tanti, la mia rabbia e la mia indignazione di cittadino che non rinuncia a essere barese. E bitontino. E, da bitontino, rimpiango i tempi in cui la bella plaga di Santo Spirito, la dolce marina e quelle spiagge erano comprese nel territorio di Bitonto. Forse l’immane ammucchiata di automobili sarebbe stata parcheggiata, in ordine, lontano dalle case della bella marina di Santo Spirito.
La mia perorazione non ha avuto alcun successo. La notorietà non ha funzionato per niente. A parte un intervento, a me graditissimo, del Professore Schittulli, totale è stato il silenzio. Preferirei quel silenzio lo osservassero, questi indolenti cittadini, quando mi incontrano, invece di prodigarsi, petulanti, sul tema della popolarità della mia immagine, pretendendo consigli, ricette, indirizzi di medici, consigli sugli specialisti, impossibili previsioni sulla epidemia del Covid 19. E selfie.
Volevo utilizzare la visibilità per una causa che credo giusta. Mi sbagliavo. E mi viene in mente una stravaganza di qualche tempo fa, molto prima del tempo dell’epidemia: coltivo l’illusione di diventare invisibile. Per provare. Per un tempo breve. Vorrei scomparire per un giorno dalla percezione altrui, portandomi appresso, s’intende, la mia ombra. Ci tengo, la amo, mi tiene compagnia fedele e discreta da quando sono nato. Altri provarono a venderla al malintenzionato demone delle tentazioni, il Mefistofele sempre in agguato, e mal gliene incolse.
Buffo sarebbe scomparire e lasciare visibile l’ombra come un’impronta delatrice, lì spiaccicata sulla terra o ad arrancare dietro il nulla. Ombra esplicita e testimoniale di una presenza recondita. Io, invece, vorrei scomparire alla vista di tutti, non per sinistri disegni o per consumare clandestine soperchierie ai danni del prossimo, s’intende, ma, solo, per vedere l’effetto che fa. Perché va da sé che vorrei, anche, esserci e vedere, guardare, ascoltare, sentire, annusare. E vorrei camminare sul ciglio di una aiuola fingendo l’asse di equilibrio e bighellonare canticchiando e guardare le vetrine dei negozi di vestiti e ammirare le donne a spasso girandomi a scrutarne il passo leggero che si allontana. Nessuno mi vedrebbe. Giuro che sarei educato e non approfitterei mai della mia condizione di privilegio data dall’invisibilità. Ho ragioni serie che provocano questa bizzarra voglia e, dunque, non potrei indugiare in sciocchezze goliardiche.
Una di queste ragioni va ascritta alla visibilità eccessiva concessami o impostami dalla televisione. Intendiamoci: Dio mi guardi dall’insopportabile civetteria di lamentarmene e di voler allontanare da me il calice dello champagne. Gli è che, talora, diventa difficile e logorante il presenzialimo innocente decretato dagli altri, fatto di quel consenso affettuoso e dolcemente petulante che sancisce il successo e che decreta la popolarità. Quel tanto di popolarità che mi ha concesso la tivvù, mi espone alla curiosità invadente e cocciuta di qualcuno, soprattutto in circostanze come lo sbarco da un aeroplano. Per esempio.
Mesi or sono, prima della segregazione inflitta dalle misure contro l’epidemia, un gruppo di Pugliesi emigrati negli Usa parlava di me a voce alta come se io non esistessi. Uno ha detto: «Sembra più alto» e un altro ha risposto con una frase bella e terribile: «La televisione lo abbassa».
Un’altra volta, sempre mesi prima delle severe restrizioni imposte dal virus dilagante, scesi dall’aereo con Antonello Venditti, un vecchio amico. All’uscita, grazie a lui, mi salvai dalla minuscola calca di richiedenti selfie che preferì il cantante. La manovra fu un successo quasi totale. Il quasi era un tale che rinunziò alla preda più ambita per accontentarsi di me e mi tallonò fino quasi al parcheggio dei taxi. Qui mi arresi: il selfista spianò il telefonino e, mentre tentava lo scatto, mi sussurrò: «Ma lei chi è?». Chiunque io fossi, dunque, a lui bastava, si accontentava di un tale conosciuto da tutti, non importa se ignoto a lui. Non era mica stima, era solo sfida al suo anonimato grazie alla mia inspiegata notorietà.
La riconoscibilità è inebriante, la visibilità una rassicurante conferma di esistenza. Ma, c’ero anche prima. Non mi ha fatto nascere la televisione. Anche il mondo c’era prima, tale e quale, né più bello né più brutto, forse solo un po’ più taciturno. Felicità, sciagure, dolcezze della vita e simmetriche amarezze, tutto, tutto c’era anche prima. La televisione lo racconta, non lo sostituisce, in nome di Dio. Allora, e solo allora, diventa alleata, sostenitrice e amica.
Ho pensato, scrivendo l’articolo del 9 agosto sullo scempio ambientale di Santo Spirito, di scoprire che, grazie alla televisione, qualcuno mi ha trovato un galantuomo deciso ad essere utile a sé stesso e agli altri. E a una causa sacrosanta. Pensai: se è così, sia benedetta, la televisione. Se, invece, si tratta di sola apparenza enfatizzata, ha ragione il Pugliese emigrante: «La televisione abbassa». Ma non me, né il Professor Francesco Schittulli.