L'editoriale

Le ricette di Draghi spiazzano i dragologi

Giuseppe De Tommaso

Non appena Draghi apre bocca, a prescindere dal luogo e dal testo dell’intervento, si scatenano immediatamente agguerrite squadre di esegeti e retroscenisti, equamente divise tra chi lo proietta sul Quirinale e chi lo indirizza su Palazzo Chigi

E meno male che Mario Draghi non ama la luce dei riflettori e, appena può, si rintana nel suo buen retiro in Umbria. Altrimenti ogni sua sillaba darebbe nuova linfa alla dragologia, materia di analisi giornalistica introdotta lo scorso anno al termine del mandato del Nostro al vertice della Banca Centrale Europea. Ma, nonostante il proverbiale riserbo di Mister Euro, la dragologia è destinata a segnare la cronistoria dei prossimi mesi (e anni). Del resto, già si vede. Non appena Draghi apre bocca, a prescindere dal luogo e dal testo dell’intervento, si scatenano immediatamente agguerrite squadre di esegeti e retroscenisti, equamente divise tra chi lo proietta sul Quirinale e chi lo indirizza su Palazzo Chigi. Ma, anche quando Draghi tace, i dragologi non si rassegnano al silenzio. I più tenaci della categoria non hanno dubbi: se Draghi sta zitto, vuol dire che non intende scoprire le carte, ma di sicuro un piano ce l’ha per uscire, al momento propizio, allo scoperto e scegliere la nuova collocazione in Azienda Italia.

A pochissimi spettatori e a pochi commentatori sta a cuore il contenuto delle (sporadiche) esternazioni di Draghi. Anche perché, per lo spirito del tempo, tutto è tatticismo in politica, tutto è carrierismo, calcolo a breve, medio e lungo termine. Anche se il protagonista della vicenda vanta, come Super-Mario, un curriculum al di sopra di ogni sospetto.

Ma siccome quasi tutti giudicano il detto e il non detto degli altri con il proprio metro di giudizio, va a finire che nessuno presta attenzione ai concetti espressi, ma quasi tutti preferiscono puntare le antenne sulla comunicazione o sulla non comunicazione tout court.

Quante volte in passato il presidente della Bce, al cui pompaggio monetario e alla cui determinazione nel difendere l’euro a tutti i costi si deve il salvataggio di casa Italia, ha invitato la classe politica della sua nazione di provenienza ad accelerare il cambio di passo in direzione di riforme (molte a costo zero) in grado di snellire le procedure e agevolare gli investimenti? Diciamo tutte le volte che Draghi ne ha avuto l’opportunità. Eppure, nonostante gli applausi iniziali, l’andazzo romano non ha mai cambiato itinerario. Non solo. Spesso si è andati in senso contrario. Come dimostrano alcune misure, da quota cento al reddito di cittadinanza (per citare le più cospicue), che anziché premiare il lavoro, hanno scelto di premiare il «non lavoro». E pensare che la Costituzione non ha bisogno di interpreti specializzati al riguardo. L’articolo uno stabilisce che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, non sull’assistenzialismo. L’articolo quattro ricorda che ciascuno ha il dovere di impegnarsi per il lavoro che, secondo i Costituenti, non è solo un diritto, ma anche un dovere. E quando Draghi sottolinea che vi è un debito buono (per gli investimenti) e un debito cattivo (per i sussidi), non fa altro che muoversi nel solco della Costituzione repubblicana, i cui padri, peraltro, tutto erano tranne che congrega di biechi reazionari. Purtroppo, commenterebbe Draghi, citando il suo amato John Maynard Keynes (1883-1946), «la difficoltà non risiede nelle nuove idee, ma nel sottrarsi alle vecchie che ramificano in ogni angolo della mente».

Sono le vecchie idee, foriere di continui privilegi, ad aver creato le premesse del più sciagurato conflitto in atto nella Penisola da qualche tempo: gli italiani di oggi contro gli italiani di domani, i vecchi contro i giovani, roba ideale per la penna di un redivivo Luigi Pirandello (1867-1936), stavolta rafforzato da studi di economia.
Spiega il giurista Sabino Cassese nel suo ultimo libro (Il buon governo): «Il valore-lavoro nella Costituzione non è considerato soltanto come fonte di reddito, ma anche come funzione svolta dall’individuo per la società, come modo di stare insieme agli altri, contribuendo alla vita collettiva». Ma se questo precetto costituzionale viene ribaltato come una moto impazzita per fare strada alla volata dei sussidi e delle sinecure clientelari, beh allora non c’è ricetta economica che tenga. Neppure dieci Padre Pio riuscirebbero a realizzare il miracolo della ripresa produttiva.

La questione italiana non è tanto economica, quanto culturale. Un tempo c’era chi sosteneva che il salario fosse una variabile indipendente. Chi lo disse, però, essendo un galantuomo, si accorse subito della sciocchezza da lui proferita, e ammise di aver sbagliato. Oggi, però, c’è chi dà l’impressione di considerare il lavoro stesso come una variabile indipendente o un optional di cui poter, all’occorrenza, potere fare a meno. Tanto c’è sempre un sussidio, c’è sempre una misura cuscinetto in grado di ammortizzare i problemi di tutti.
Ecco. Draghi l’altro ieri ha voluto rammentare alla classe dirigente italiana, che non coincide solo con la classe di governo, che il «non lavoro» non può diventare un valore e che lo stato deve fare il diavolo a quattro soprattutto per investire e accumulare, non già per prelevare a oltranza dai produttori e distribuire senza criterio a tutti quelli bussano a quattrini.

Ma i moniti e i caveat, pronunciati dal salvatore dell’euro, risultano poco congeniali e poco convenienti per le (ipotetiche) ambizioni di chi viene radiografato ogni giorno dalla testa ai piedi perché sospettato di voler pianificare la marcia sui palazzi più prestigiosi della Capitale. Tutto vuole sentirsi dire certa classe politica tranne che la verità.


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