L'analisi
La Puglia resta fuori dai giochi per le alleanze
Vincono Di Maio e Zingaretti, sotto la regia di Beppe Grillo, mentre il premier Giuseppe Conte si indebolisce nel ruolo di leadership
Le scelte future del Movimento 5 Stelle su alcuni punti cruciali, ma anche identitari, passavano per un voto sulla piattaforma Rousseau, mentre pentastellati e Pd seppellivano l'ascia di guerra. Quel voto è arrivato, risicato, sancendo due novità che poi tanto nuove non sono. Gli iscritti grillini hanno deciso il via libera alle alleanze - con i dem - alle elezioni amministrative e la deroga al doppio mandato. Vincono Di Maio e Zingaretti, sotto la regia di Beppe Grillo, mentre il premier Giuseppe Conte si indebolisce nel ruolo di leadership.
Dato anche il numero scarso dei partecipanti all’ennesima prova di «democrazia diretta», il Movimento ne esce non bene, capace com’è stato di rimangiarsi in questi anni di governo tutte le linee guida per le quali era nato ed era stato - in passato - ampiamente votato. Stesso discorso varrebbe per il Pd, ma da quelle parti le strategie politiche sono pane quotidiano.
Di certo non sono tutte rose e fiori. I distinguo diventano annunci belligeranti, se non vere e proprie dichiarazioni di guerra. Zingaretti esulta, ma già prende le distanze dal Raggi-bis al Campidoglio. Più o meno la stessa cosa accade a Torino, con la Appendino che apre ai democratici e questi che chiudono. Senza dubbio mancherà l’appoggio - ancora da capire quanto influente - di Italia viva. Il renziano di ferro Davide Faraone parla di accordo populista sul ritiro delle querele a Grillo: «“Mai col partito di Bibbiano che toglie i bimbi alle famiglie” fu detto dai grillini». In quel luglio 2019 il Nazareno presentò 23 querele e lo fece per tutelare il buon nome dei militanti e dei volontari. «Ho letto l’altro ieri - dice ancora l’esponente Iv - una fantastica nota comune del Pd e del M5S che dice così: “Abbiamo deciso di comune accordo di abbandonare alcune cause che ci vedevano contrapposti. È inutile continuare ad intasare i tribunali perdendo tempo con vicende vecchie e superate”».
Se sulla carta si è voluto riportare il sistema dei partiti su un modello bipolare, con una rivoluzione per i pentastellati e una scommessa per i democratici, gli effetti finali potrebbero essere del tutto diversi, con una frammentazione del voto, una spinta all’astensionismo e un pericoloso effetto a «macchia di leopardo». Infatti se alla fine per il Campidoglio si troverà la quadra su Virginia Raggi (unico modo per la coalizione giallorossa di rigiocarsela) e lo stesso accadrà in Piemonte con la Appendino, sono le Regioni a dare più di un grattacapo. Puglia in testa.
Qui, dove Michele Emiliano da anni (da prima ancora che nascesse l’attuale governo) corteggia sfacciatamente i grillini, questi gli hanno dato l’ennesimo dispiacere per bocca dalla candidata alla Presidenza, Antonella Laricchia: «Per me il M5S o è alternativo alla mala politica della destra e della sinistra o non ha senso di esistere. Faccio il contrario di quello che farebbe molta gente: non salgo sul carro del vincitore. È passato il Sì ma io ho votato No alle alleanze con i vecchi partiti, perché il Movimento 5 Stelle è nato perché la mala politica di destra e la mala politica di sinistra avevano fallito. Dobbiamo trasformare i partiti nel M5S e non trasformare il M5S in quello che sono i vecchi partiti». Puglia dove, beninteso, lo stesso premier Conte (che qui è nato) lavorerebbe non tanto sotterraneamente per la riconferma del governatore uscente.
Ma in questo i fatti di Bari si intrecciano con quelli di Roma. Molti ministri vicini al premier non si fidano della mossa di Di Maio, si pensa a una strategia per rafforzarsi sui territori e poi gettare il bambino con l’acqua sporca. In quest’ottica la tornata elettorale di fine settembre assume il peso di un’ulteriore verifica. Perché è vero che il pericolo Salvini incombe, ma così si corre il rischio di fargli un favore enorme.