L' editoriale
La necessità di selezionare una buona classe dirigente
Scriveva l’economista Sergio Ricossa (1927-2016), tifosissimo del libero mercato, che la società italiana è competitiva al rovescio. Anziché selezionare e premiare gli onesti, essa tende a selezionare e premiare i disonesti. Insomma, la società italiana - riassumeva amaramente Ricossa - mostra al contrario le virtù che i liberisti attribuiscono alla concorrenza. Il che, detto da un liberista puro, dovrebbe far riflettere non poco sulla compatibilità o meno della gens italica con i vari sistemi poitico-economici, compreso quello ispirato al libero-scambismo.
Il test più attendibile sul tasso di capacità e moralità delle classi dirigenti italiche rimane l’appuntamento elettorale. Di solito ogni legislatura si rivela peggiore di quella precedente e migliore di quella successiva. Idem per le consiliature e le giunte, ossia per gli enti locali incaricati di amministrare, non di legiferare.
A onor del vero, la questione non è nata ieri. Persino Niccolò Machiavelli (1469-1527), simbolo del realismo politico e teorico della distinzione tra il «politicamente utile» e il «moralmente giusto», quando cercò di far carriera politica in proprio, fece la figura dell’ingenuone o del fessacchiotto. Molto più spregiudicato e machiavellico di lui si rivelerà il conterraneo Francesco Guicciardini (1483-1540), il cui programma non richiedeva esegesi speciali: «Non rimane a un gentiluomo altra alternativa che di lasciarsi tagliar la testa dalla canaglia o mettersene a capo. Preferisco il secondo partito».
Per chi non aveva il ducesco del capitano di ventura, c’era pur sempre a disposizione una seconda chance: l’adulazione. «La politica vera - recitava un consiglio del tempo - è dir bene di chi è grande, temere chi è forte, stimare chi è più ricco, lodare chi vince».
Alle corte. La legge di degenerazione della politica italiana viene da lontano, tanto da indurre, nei secoli, molte intelligenze malate di politica a tenersi alla larga dai palazzi preposti. «Sono inesperto di scherma parlamentare», così si schermì e autoraffigurò Carlo Cattaneo (1801-1869) nel congedarsi dai suoi colleghi in aula. E il trasformismo era solo agli inizi. Infatti, già prima dell’Unità d’Italia, nel regno sabaudo, il trasformismo, successivamente identificato col funambolico Agostino Depretis (1813-1887), era un fenomeno ben radicato. «Vi sono parecchi deputati che seggono alla sinistra e votano costantemente con la destra; altri che, anche sedendosi costantemente alla destra, votano talvolta con la sinistra. poi vi sono le farfalline», s’indignava ne I moribondi del Palazzo Carignano il lucano Ferdinando Petruccelli della Gattina (1815-1890), una sorta di precursore pannelliano tra i notabili post-risorgimentali. Le «farfalline» erano i tipi sempre pronti a seguire il padrone di turno.
Verrebbe da dire: nulla di nuovo sotto il sole. Lo stesso Risorgimento, come si vede, non fu prodigo di eroi, proprio come lo lesse Piero Gobetti (1901-1926), che contrastò da par suo la vulgata retorica post-unitaria.
Eppure quella classe di governo, che agli occhi degli spettatori più attrezzati del tempo, non brillava né per acume né per moralità, seppe raggiungere traguardi che oggi apparirebbero inavvicinabili, chimerici. Segno che il contrasto tra il «politicamente utile» e il «moralmente giusto» non sfociava nell’inazione, nell’immobilismo permanente, ma, come usa dire adesso, era sempre espressione di un obiettivo, di una visione superiore.
Ora veniamo a noi. Le Regioni avrebbero dovuto completare e perfezionare l’integrazione politica nazionale realizzata dal Risorgimento e, decenni dopo, dalla Prima Guerra Mondiale. In realtà, le Regioni hanno contribuito non poco alla lacerazione del tessuto unitario, tanto che oggi non costituiscono di sicuro una risorsa, semmai un problema. Problema aggravato dalla crisi economica e sanitaria provocata dalla pandemia di origine cinese.
La questione centrale rimane quella già focalizzata da Petruccelli della Gattina: la qualità del personale politico, lo spessore, quasi sempre lo scarso spessore, della classe dirigente, eletta e no.
Negli ultimi lustri, specie dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, si sono sfidati due modelli: il partito della Nazione e il partito delle Regioni. Il partito delle Regioni ha poi assunto il nome di partito dell’autonomia differenziata, ma la «dialettica», per così dire, tra Regioni e Nazione è stata solo accelerata dal veneto Luca Zaia, in realtà preesisteva ed era figlia dell’asimmetria tra i poteri tra governo nazionale e i poteri dei governi regionali: il governo centrale debole per Costituzione, le giunte regionali forti per costituzione elettorale, visto che i loro presidenti si giovano della super-legittimazione assicurata dall’investitura popolare.
E così proprio perché il futuro prossimo venturo richiederà un cospicuo supplemento di sacrifici economici, determinato dai costi complessivi della pandemia; proprio perché la questione meridionale risulterà ancora più delicata alla luce del tracollo del Pil e dell’esplosione del debito pubblico; proprio perché sarà vieppiù necessario che il Sud non si esaurisca nel suo bacino elettorale, ma richieda una rappresentanza larga in grado di misurarsi e confrontarsi in Europa, con le sue opportunità e i suoi princìpi; proprio perché, mai come adesso, risulta improponibile e inaccettabile l’omologazione dell’uno vale uno, cui fa da specchio la banalizzazione di ogni problema; proprio perché la Puglia si trova ad affrontare questioni di portata straordinaria, dall’agricoltura (Psr e Xylella) all’acqua, dall’Ilva ai trasporti (vedi la penalizzazione dei voli da parte di Alitalia alimentata pure dal denaro dei contribuenti meridionali), ecco proprio perché l’Italia e il Sud attraversano la fase più difficile e incerta della loro storia, sarebbe opportuno che i candidati presidenti e le loro relative coalizioni selezionassero al meglio, smentendo la rassegnata, pessimistica osservazione di Ricossa riportata all’inizio di questo articolo, i nomi da presentare nelle liste elettorali. Programma vasto e ambizioso? Forse. Ma se le votazioni non possono esaurirsi in un mega-concorso pubblico per aspiranti decisori, anche la politica non può risolversi in un postificio per gli eletti e in una fabbrica di aiuti e promesse clientelari per molti elettori.
Un sogno? Può darsi. Ma a furia di inventare posti di lavoro artificiali, anziché realizzare infrastrutture finalizzate allo sviluppo industrial-tecnologico, l’Italia e il Sud in particolare non se la passano, diciamo, molto bene.