L'analisi
Ma informare non significa diffondere sfiducia
Sembra che la convivenza domestica imposta dal coronavirus abbia fatto scoprire o riscoprire, a molti, il piacere di leggere
Sembra che la convivenza domestica imposta dal coronavirus abbia fatto scoprire o riscoprire, a molti, il piacere di leggere. Se così fosse, sarebbe l’unico effetto positivo del morbo giunto dall’Asia, perché, per il resto, il conto finale del flagello si annuncia più pesante di un bombardamento aereo su scala mondiale. Purtroppo, però, non è facile, specie per gli anziani, raggiungere i luoghi dell’informazione. Le giuste prescrizioni per contrastare il contagio scoraggiano le fuoriuscite da casa. Di conseguenza, la voglia di sapere e approfondire viene frenata dalla difficoltà oggettiva di raggiungere le edicole cittadine. La soluzione va trovata nell’acquisto delle copie digitali (infatti, sono in crescita), o nel relativo abbonamento. Ma non tutti i lettori sono avvezzi alla Rete, molti sono affezionati al prodotto cartaceo e non intendono mollarlo per nessuna ragione al mondo. Il Gruppo Lobuono, leader nel Sud per il settore della distribuzione editoriale, ha avviato la (benenerita) consegna porta a porta di giornali e riviste, ma è indubbio che l’informazione su carta abbia ricevuto un duro colpo dalla diffusione del flagello.
Eppure anche se alla maggioranza degli italiani non piace leggere, si avverte oggi una brama di conoscenza mai riscontrata in passato. E solo i giornali possono soddisfarla perché solo i giornali si addicono all’approfondimento, all’informazione ragionata, al coinvolgimento attivo, non passivo, del lettore. Che, quando, diventa telespettatore o internauta, evolve in soggetto schiavo dell’immagine o dei like. Parecchi anni fa, Ciriaco De Mita, aprendo un convegno della Dc, di cui era il timoniere, osservò che la comunicazione non era più pensiero, ma era diventata suono. Aveva colto nel segno. Oggi la comunicazione tutto è fuorché pensiero. Restano i giornali a fare da guardiani della buona informazione (diversa, ontologicamente, dall’emotiva comunicazione) anche se per parecchi italiani aprire un libro o un giornale è più faticoso che lavorare in miniera, tanto che molti preferiscono la scrittura alla lettura.
Ora. Già i giornali, come osservava nel 1969 lo scrittore Leonardo Sciascia (1921-1989), somigliano a un velario, più che a un sipario, perché lasciano intravedere qualcosa di ciò che si muove dietro, il che richiede un occhio abituato o allenato. Figuriamoci quali strumenti servirebbero per difendersi dai virus (bufale in quantità) che affollano la video e la web-informazione. Sciascia, che era un bastian contrario sin nella culla e che come il più classico tra i siciliani sapeva spaccare il capello in quattro, faceva pure notare che i giornali regionali hanno un pregio che quelli nazionali non hanno: sono meno orientati all’uniformità, all’omologazione.
Ma c’è dell’altro. Il giornalismo scritto vive e fa vivere la verità, che estrae il semplice dal complesso. Anche quando rappresenta cose terribili esso non trascura il piacere di vivere. Solo nell’informazione cartacea si potrebbe calare l’epigrafe dello scrittore francese Georges Bernanos (1888-1948): «Preferisco perdere dei lettori, piuttoso che ingannarli».
Viceversa, l’informazione televisiva e la comunicazione internettiana sono un’orgia di forzature ed esagerazioni, in cui l’esaltazione e la demonizzazione non si abbracciano alla verità, o fanno in modo di schiacciarla come in un sandwich.
Ultimo esempio, il coronavirus. Che la nuova peste sia una tragedia collettiva, che il bilancio del contagio è già adesso un bollettino drammatico, che l’epidemia in corso costituisca il più grave evento degli ultimi decenni, non ci piove. Ma un Paese che ha intenzione di ripartire al più presto, non appena la presa del morbo si allenterà, non può essere incalzato h24 da una sequenza di news e previsioni che definire infernali è poco. Nessuno, sano di mente, potrebbe scommettere che nel giro di poco tempo ci ritroveremo il paradiso in terra. Ma nessuno, dotato di buon senso, può immaginare di tornare a crescere a colpi di profezie apocalittiche che annunciano l’arrivo di un cigno nero dopo l’altro. Eppure, il grosso delle trasmissioni tv e dei discorsi webeti rappresenta una spinta quotidiana alla sfiducia, al pessimismo, spesso in contrasto con gli striscioni e i canti fiduciosi sui balconi in cui si canta che andrà tutto bene.
L’economia è innanzitutto psicologia. È vero che non è facile infondere o vendere ottimismo quando il contagio non ha interrotto, nemmeno provvisoriamente, il proprio tour. Ma è altrettanto vero che una società smaniosa di salvarsi ha il dovere di diffondere fiducia, nonostante i lutti senza tregua.
Tv e web sono strumenti che vivono di emozioni. I giornali preferiscono vivere di ragione. E la ragione insegna che prima o poi le crisi finiscono e che bisogna saper ricominciare. Ma come si fa a ripartire se chi potrebbe/dovrebbe aiutare la gente a non disperare, fa di tutto per deprimerne il cuore e la testa. Già, come si fa?