L'analisi

Primi effetti collaterali quegli spot fuori registro

Oscar Iarussi

Dopo Milano non si ferma che ha fatto furore sui social dove è stato condiviso anche dal sindaco Beppe Sala, adesso è la volta di La Puglia che non molla!

I’m too old for that. È una battuta celebre del film Arma letale, rivolta da Danny Glover al collega poliziotto Mel Gibson: «Sono troppo vecchio per queste cose». Beh, non dice proprio «cose», ma ci siamo capiti.
Di sicuro vale anche per noi: troppo vecchi per capire a chi sono o sarebbero rivolti i video «turistico-culturali», chiamiamoli così, che si vanno moltiplicando nel fosco scenario del Covid-19, il temibile coronavirus in azione.

Dopo Milano non si ferma che ha fatto furore sui social dove è stato condiviso anche dal sindaco Beppe Sala, adesso è la volta di La Puglia che non molla!.

Una serie di immagini suggestive della nostra regione mostrano mare, trulli, teatri, monumenti, danze, polpi arricciati e bella gioventù. Si alternano a ritmo di hard rock e sfociano nello slogan finale con tanto di inevitabile hashtag: #LaPugliaCheNonMolla, appunto. Tra le didascalie ve n’è una particolarmente forte e attuale che recita: «L’unica cosa contagiosa è la nostra allegria».

Ora, a chi mai è rivolta questa forma di comunicazione? Al turista che improvvisamente, «nonostante» ‘o virùs, venga assalito dal sospetto che la Puglia sia una terra tristissima? Allo spettatore pentito dell’ultimo film di Checco Zalone? All’intellettuale di ritorno - tolo tolo, ça va sans dire - dal centoventisettesimo convegno sulla «resilienza», la parola più abusata degli ultimi anni? Al disastrologo che ha composto l’ennesimo decalogo post-pre-meta-trans-ultra-deca pasoliniano sulla fuga dalla modernità? Già, il pasolinismo Hag, ci è toccato anche questo...

Sia chiaro, le agenzie di comunicazione, che sono animate da bravissimi professionisti, puntano a rinfocolare la speranza di tutti. E lo confermano le decine o centinaia di migliaia di condivisioni dei suddetti video e di altre produzioni del momento, come quella concepita a Taranto dalla Confcommercio. In una Taranto, per inciso, dove neppure s’intravedono le ciminiere dell’Ilva, secondo il format varato dalla Regione Puglia fin dai tempi di Vendola. Magari si vogliono rinserrare le fila dell’identità cittadina o regionale o italiana, a petto di un pericolo incombente. E sia! Ma il coronavirus non è l’Isis. È un organismo vivente e a suo modo intelligente, tuttavia è privo di capacità dialettiche (non che con gli estremisti islamici si riuscisse a parlare del più e del meno). Il coronavirus non «si spaventa» rispetto all’orgoglio meneghino o all’allegria pugliese. È un fenomeno globale, anzi, secondo taluni, un metaforico frutto avvelenato della globalizzazione. In tale orizzonte rischia di essere un po’ patetico il rinverdire l’estetica delle piccole patrie, dei campanilismi sentimentali, della promozione territoriale che negli ultimi lustri è stata lo stigma degli enti locali soprattutto al Sud (scusate, «stigma» è una parola straniera, in italiano si dice brand).

Inoltre, questi filmati come altri inviti alla socialità «antipanico» - dall’apertura gratuita dei musei fiorentini agli aperitivi a metà prezzo in piazza San Marco, all’inevitabile slogan «Cultura contro virus» - eludono disattendono mitigano vanificano le indicazioni dei virologi e degli epidemiologi. Gli scienziati saranno pure in relativo disaccordo sulla gravità della patologia, però all’unisono continuano a ripetere che bisogna rarefare le occasioni di incontro e ridurre i contatti pubblici per contenere il contagio, a tutela in primis dei più deboli: gli anziani, gli immunodepressi, chi soffre di altre patologie. Perciò i flash mob, ancorché visivi, o gli spot esemplari e virali (ops) sono oggi un errore o perlomeno un equivoco nella comunicazione sul tema, simbolicamente corrispondono a una specie di innesco dell’«arma letale».

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