l'editoriale
Una nazione sempre più frenata dall'instabilità
Servirebbe una sola regia di indirizzo, proprio per accelerare le cantierizzazioni e bloccare i conflitti tra i territori. In una parola: occorre stabilità anche per il Mezzogiorno.
Poche nazioni sanno scoraggiare gli investimenti come l’Italia. La burocrazia è più lenta di una lumaca. La giustizia più incerta del clima. La criminalità più asfissiante di un gas tossico. La cultura industriale più arretrata di una Topolino. La legislazione più invadente di una suocera. Lo statalismo più invocato del vincitore di Sanremo. E poi la politica, o meglio l’instabilità politica, più frequente dell’acqua alta a Venezia.
Ogni stagione, ogni fase della Repubblica ha la sua pena. Un tempo, però, cambiavano i ministri, non i governi. Di fatto, un minimo di stabilità, sia pure all’italiana, era assicurata. Oggi, invece, cambiano i ministri, si alternano le sigle al governo, ma diversamente dal passato, non c’è tregua che tenga tra i soci di una coalizione. Una sorta di instabilità permanente che contribuisce a sconsigliare gli investimenti peggio di dieci annunci-choc su un’epidemia in arrivo. La stabilità politica è un’infrastruttura immateriale, ma incide sullo sviluppo di una nazione meglio di un’infrastruttura materiale. Con quale ministro, tra due mesi, discuterò di un progetto? Siamo sicuri che ne riparlerò con la stessa persona? Quale politica economica mi ritroverò a fine anno se il governo verrà mandato a casa? Sono solo alcune tra le domande che si pongono gli investitori, internazionali e nazionali, quando prendono in considerazione l’ipotesi di creare o comprare qualcosa in Italia.
Per il Sud, inoltre, lo scenario è ancora più sconfortante. È stato ripetuto più volte su queste colonne. Il protezionismo economico (dopo l’Unità d’Italia), contro cui si batté da leone il fuoriclasse salentino Antonio De Viti De Marco (1858-1943), assestò un colpo letale all’economia meridionale, che, in seguito, svoltò rapidamente verso la linea dell’assistenza, radicando la convinzione che la protezione fosse preferibile alla libertà d’intrapresa.
La battaglia per il libero scambio, sostenuta da De Viti De Marco, venne rilanciata nel secondo dopoguerra da Luigi Einaudi (1874-1961), grande ammiratore dell’economista leccese. Einaudi si opponeva alla creazione di industrie pesanti tipo gli insediamenti siderurgici (!!!) e petrolchimici, per giunta finanziati dallo Stato. Le perplessità einaudiane erano di duplice natura. Una: l’industria pesante non richiedeva molta manodopera rispetto ai costi stratosferici degli impianti. Due: l’industria pesante contribuiva alla distruzione di ambiente e territorio, sacrificati alla cosiddetta «industrializzazione senza sviluppo».
Eppure, nonostante le riserve di studiosi come Einaudi, bisogna riconoscere che soprattutto il primo decennio dell’Intervento Straordinario contribuì a ridurre parecchio il divario tra Nord e Sud. Lo ridusse anche perché la struttura della Cassa prevedeva un solo regista in cabina, che operava senza sovrapposizioni e confusioni di compiti. In soldoni: anche l’Intervento Straordinario si giovava del fattore stabilità, al riparo dalla concorrenza spesso interdittiva tra i numerosi enti e le molteplici agenzie che spunteranno e dilagheranno strada facendo.
Già l’istituzione delle Regioni (1970) produsse una frammentazione irreparabile delle politiche di coesione territoriale, che cessarono di essere una priorità nazionale, condivisa e accettata da tutti. Poi la proliferazione di enti e agenzie completò il quadro, in un crescendo di gelosie e ambizioni localistiche, tutto a scapito dell’unità nazionale. Per capirci: difficile realizzare un piano per il Sud, non soltanto per le preoccupazioni già manifestate in passato da De Viti De Marco ed Einaudi. Difficile realizzare un piano credibile, se gli interventi continueranno a essere parcellizzati in mille affluenti e se le diverse burocrazie delle diverse agenzie per lo sviluppo si faranno la guerra come i polli di Renzo. Servirebbe una sola regia di indirizzo, proprio per accelerare le cantierizzazioni e bloccare i conflitti tra i territori. In una parola: occorre stabilità anche per il Mezzogiorno. Altrimenti addio rispetto dei tempi di utilizzo dei finanziamenti comunitari. Si continuerà a fare come si è fatto finora: botte all’Europa, accusata di insensibilità sociale e di intransigenza congenita a causa del suo rigorismo spinto, salvo dover ammettere che larghi flussi di fondi europei vengono impiegati solo in minima parte, per la mancanza e la debolezza delle relative progettazioni.
Nel piano di Conte per il Sud viene avvertita l’esigenza di coordinare i vari enti impegnati nella coesione territoriale, ma sappiamo tutti quanto sia arduo togliere «competenze» a un ufficio-doppione. Si rischia il finimondo, nessuno vuole cedere prerogative e scrivanie, tutti si ritengono più indispensabili di Leonardo da Vinci (1452-1519). Di conseguenza: i soldi stanziati per le aree deboli si riducono a fare bella figura nei titoli di giornale se non sono accompagnati da una centralizzazione delle scelte decisive. Un commissario ad hoc? Sia un commissario ad hoc che, ovviamente, sarà periodicamente chiamato e rendicontare e relazionare sulle iniziative avviate.
Rimane, in ogni caso, la consapevolezza che lo sviluppo non si crea per legge. Le leggi possono favorire la crescita di un Paese, ma la spinta primaria deve arrivare dagli eletti e dagli elettori, dalla gente comune, dalle famiglie e dalle imprese.
Gli eletti non dimostrano grande interesse per la crescita, cui tendono a preferire la redistribuzione della ricchezza prodotta. Gli elettori, una vasta fascia almeno, si sono così disabituati a ragionare in termini di autosviluppo e di responsabilità personale, da invocare, spesso, la mano pubblica anche laddove non è necessaria.
Gira e rigira, il fattore stabilità-instabilità è sempre più decisivo, dalla politica all’economia. Senza stabilità non c’è speranza di rilancio, a cominciare dagli investimenti. Ovviamente, a pagare di più il prezzo dell’instabilità resta sempre il Mezzogiorno, che non dispone di un tessuto produttivo in grado di fare tutto da solo e, per giunta, deve bussare a una casa pubblica, a sua volta divisa in decine uffici, camere e camerette mai solidali tra loro. Figuriamoci con gli altri.