L'analisi

La politica intrappolata dalla logica elettorale

Francesco Giorgino

In politica ripartire dalle basi è utile. Anzi a volte è indispensabile.

Ho sempre pensato che se nella postmodernità è diventato ormai impossibile procedere per dogmi e verità precostituite, visto che tutti coltiviamo la pretesa di ergere a paradigmi le nostre micro narrazioni individuali, importante è non sviluppare assuefazione rispetto a quella che Bauman chiamava “la società dell’incertezza”. Una società, cioè, che sembra rifiutare la prospettiva della stabilità e della durata, una società in cui “il tempo non è più un fiume che scorre, ma un insieme di pozzanghere” e la frammentazione è condizione e non processo. Parto da queste considerazioni di carattere generale per argomentare intorno alle vicende politiche (ma sarebbe meglio dire partitiche) degli ultimi giorni.

La politica ha molti compiti, ma uno appare più importante di altri, almeno dal punto di vista strategico: il perseguimento del bene comune e dell’interesse collettivo. Persino il marketing, come due giorni fa ha ricordato a Roma Philip Kotler, è orientato ormai al common good, figuriamoci se non debba esserlo la politica che è al tempo stesso rappresentanza e rappresentazione, comprensione e deliberazione, supervisione delle dinamiche macro sociali e visione prospettica. Ha ragione John Law quando afferma che il problema dell’ordine sociale (leggasi della coesione sociale) sembra essere stato sostituito dalla preoccupazione per l’evoluzione dei processi di regolazione socio-tecnologici. Tutto questo, però, sebbene sia diventato inevitabile a seguito della trasformazione digitale non svincola la politica dalla necessità di un maggiore radicamento ad una delle sue forme ontologiche di progettualità: la capacità di decidere, scegliendo tra le diverse alternative a disposizione, la forza di fornire soluzioni concrete ai problemi delle comunità e nel contempo la possibilità di produrre significato, orientando i singoli e la collettività in direzione di valori comuni. L’eccesso di frammentazione, l’assenza di una direzione di marcia univoca, lo schiacciamento della politica e dei politici sul presente rappresentano un ostacolo enorme al perseguimento di queste finalità. Più l’orizzonte temporale della politica si restringe, più è difficile fare programmazione. Più è difficile fare programmazione, più si allontana la possibilità di invertire la tendenza. Più l’innovazione tarda ad arrivare o si palesa sotto mentite spoglie, peraltro non facilmente percepibili dall’opinione pubblica, più nascono forme di partecipazione dal basso come quelle manifestatesi con il movimento delle sardine.
Volendo fare un’istantanea dell’attuale situazione politica, emergono spinte e controspinte da parte di tutti i player in campo.

Perché la politica possa incidere e generare impatto positivo, essa non può e non deve essere contro qualcuno o qualcosa, ma a favore di un’idea e di un progetto chiaro e riconoscibile. I partiti politici sembrano intrappolati in questa logica, che per comodità chiameremo “logica elettorale”. Secondo questo approccio, di metodo e di merito, ciò che conta è la massimizzazione del consenso o il contenimento dei danni in prossimità di appuntamenti elettorali che il fattore tempo distribuisce ormai con cadenza continua e stabile. Capita così che ogni elezione si carichi di una valenza, almeno ai fini dell’interlocuzione con l’elettorato attivo, molto più grande di quella che essa avrebbe in condizioni di normalità. Capita che le campagne elettorali vengano immaginate come terreno di scontro interno ai partiti per mettere in discussione leadership e modelli di governance, talvolta ricorrendo a strategie che producono effetti boomerang per chi le determina. Capita che si usino armi di pressione sul governo, con il solo intento di guadagnare spazi di manovra che diversamente sarebbe impossibile ottenere. Capita questo e altro ancora e poco importa se restano aperti dossier come quelli di Arcelor Mittal e di Alitalia. Poco importa se crollano viadotti, se l’Italia è sferzata dal maltempo, se siamo all’ultimo posto nella graduatoria dei Paesi che crescono di meno dal punto di vista economico. Tutto è ricondotto alle guerre di potere e di posizione, come se valesse solo l’oggi, come se il “presente continuo” fosse l’unica bussola alla quale ispirarsi per farsi largo nei meandri della quotidianità. La politica, insomma, è diventata la piattaforma per dar vita a continue corse ad ostacoli. Ogni volta c’è una barriera da superare: vincere o quanto meno non perdere male alle prossime elezioni. Ogni volta un voto, superato il quale si ricomincia con uno sguardo sempre meno lungo e sempre meno largo. Un discorso questo che vale per la maggioranza e per l’opposizione, entrambe impegnate a favorire il primato della tattica e quello della contingenza sul resto, con tutti i problemi che ne conseguono specie per l’attuazione di dinamiche di de-ideologizzazione.

Occorre reinterpretare il significato della politica, sapendo che ogni sua azione mira o alla conservazione (spesso anticamera della stasi e del declino) o al cambiamento che però non è uno slogan, ma un elemento identitario avendo bisogno di una dose manifesta di azionabilità senza il condizionamento dei veti e contro-veti che spesso accompagnano gli esecutivi di coalizione. Recuperare i tratti distintivi della filosofia politica può essere utile. Scegliere il miglior modello organizzativo, individuare il fondamento della funzione della politica, conoscere fino in fondo la natura dell’agire politico, determinare il più efficace metodo da seguire. Max Weber distingueva tra il potere come potenza e il potere come servizio, ovvero come possibilità per gli altri più che per sé. Ripartire dalle basi è utile. E a volte indispensabile.

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