L'analisi

Il rebus della manovra sotto esame a Bruxelles

Giovanni Valentini

La maggioranza giallo-verde ha sfidato inutilmente l’Europa e adesso deve scendere a patti con un compromesso al ribasso

In attesa che si concluda – in un modo o nell’altro – la surreale vicenda della “manovra del popolo”, scritta a Roma ma riveduta e corretta a Bruxelles, si può mettere intanto un punto fermo. Se il presidente del Consiglio, i suoi due vicepremier e il ministro dell’Economia ritengono ora di poter tagliare di 4-5 miliardi gli stanziamenti per le mirabolanti promesse con cui il M5S e la Lega hanno vinto le elezioni (rispettivamente, reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni a “quota 100”), senza ridurre tuttavia le relative prestazioni, delle due l’una: o il governo aveva sbagliato clamorosamente i conti e allora non c’è più da fidarsi; oppure, sta mentendo agli italiani per difendere la propria base di consenso e ancor meno c’è da fidarsi.

Ma forse sono vere in parte entrambe le ipotesi, nel senso che la maggioranza giallo-verde ha sfidato inutilmente l’Europa e adesso deve scendere a patti con un compromesso al ribasso, destinato fatalmente a ridimensionare – almeno nei tempi di attuazione e nella platea dei beneficiari – le misure che i due partner ritengono fondamentali per salvare la faccia. Sempre che tanto basti e che la Commisione europea non decida di rinviare la manovra-fantasma o di aprire direttamente la procedura d’infrazione per debito eccessivo.

Sta di fatto, comunque, che tra i “numerini” di Di Maio e i “decimali” di Salvini siamo passati dal 2,4% del rapporto deficit/Pil al 2,04% che implica – appunto – un “numerino” di 0,36 “decimali”. Un ritocco, insomma, come quello che certi commercianti usano fare nella stagione dei saldi, per allettare i clienti e invitarli a comprare. Nel nostro caso, possiamo anche dire un “trucco” contabile che lascia apparentemente inalterate le cifre iniziali - il 2 e il 4, appunto – per camuffare la sostanza e la realtà delle cose. E cioè che sia il M5S sia la Lega dovranno rinunciare almeno a due miliardi a testa per i rispettivi provvedimenti. Senza parlare, poi, del bluff sul Pil. Nel tentativo di abbassare il rapporto con il deficit, il governo aveva alzato all’1,5% la previsione di crescita del Prodotto interno lordo per l’anno prossimo, oltre ogni ragionevole stima. Ma successivamente ha dovuto tagliarlo all’1%, con una disinvoltura da venditori dei tappeti.

Siamo partiti dai proclami dei dioscuri, “Non arretremo di un millimetro” (Di Maio) e “Me ne frego dell’Europa” (Salvini), per arrivare alla stazione di Bruxelles non già con il cappello in mano, come aveva boriosamente escluso il vicepremier leghista, ma addirittura con le braghe calate, in mutande. Tant’è che il premier Conte ha dovuto avocare a sé la trattativa con la Commissione europea e il ministro Tria ha dovuto trasferirsi per qualche giorno nella capitale belga, per aspettare le correzioni di quelli che i due vicepremier chiamavano sprezzantemente i “burocrati” e i “tecnocrati” dell’Unione. Una resa, una ritirata, una marcia indietro, insomma, poco dignitosa e ancor meno onorevole. E per di più, con il nostro Parlamento completamento esautorato, a rischio di irrilevanza, mentre si moltiplicano i voti di fiducia che servono a “blindare” la maggioranza giallo-verde per evitare agguati o sorprese.

In tutto questo, che fine ha fatto il ministro degli Affari europei, Paolo Savona, l’autore del misterioso “piano B”, cioè del progetto di uscire dall’Europa e dall’euro? Sta a Roma o a Bruxelles? È sparito, s’è dimesso? Qualcuno ne ha notizia? Non sarebbe il caso magari di dedicargli una puntata di “Chi l’ha visto”?
E il vicepremier Salvini l’ha ricevuta poi la “letterina” che aspettava da Papà Natale? Qualcuno deve averlo informato nel frattempo che le letterine piuttosto bisogna mandarle per ricevere i doni. Il ministro dell’Interno, da cui dipende la Polizia di Stato, il responsabile della sicurezza e dell’ordine pubblico, se n’è andato così a vedere la partita del Milan a San Siro, trovando il tempo anche di chiacchierare con il capo degli ultrà rossoneri, quel tal Luca Lucci pluri-condannato per spaccio di droga e rissa.

A questo punto, in una situazione già confusa e precaria, forse è inutile e controproducente accanirsi contro la correzione della “manovra-fantasma”. Inutile, perché neppure l’evidenza sembra bastare – per ora - a convincere i supporter dei populisti; controproducente, perché così si rischia anzi di fare il loro gioco. Se e quando il popolo sovrano” si accorgerà finalmente sulla propria pelle che le promesse elettorali saranno state tradite, comincerà a voltare le spalle ai populisti. Quello sarà il momento della verità.

Fino ad allora, le opposizioni faranno bene a preparare un’alternativa, ciasuna magari magari con un programma praticabile e uno schieramento credibile. Non sarà un compito agevole né per Forza Italia né per il Partito democratico. Come potrà ricomporsi il centrodestra dopo lo “strappo” di Salvini e le critiche sulla manovra? E Berlusconi potrà mai sottomettersi al suo giovane (ex) alleato? È vero che ormai in politica tutto cambia alla velocità della luce, ma probabilmente le prossime elezioni innescheranno un processo di scomposizione e ricomposizione delle forze politiche che al momento non si può neppure a immaginare.

Quanto al Pd, se riuscirà a superare le convulsioni interne, dovrà ridefinire la propria identità prima di decidere in futuro se allearsi con il M5S o con i moderati di centro. Oltre a smaltire le scorie polemiche elettorali con i Cinquestelle, anche in questo caso bisognerà far rimarginare le ferite aperte dal “contratto di governo” con la Lega: dalla politica sull’immigrazione a quella sulla sicurezza. A meno che l’esito del confronto con l’Europa non faccia precipitare la crisi economica e finanziaria, ciò che ovviamente non è auspicabile, inducendo prima o poi le forze più responsabili a costituire un governo di “unità nazionale” o di salute pubblica, per portare il Paese fuori dall’emergenza.

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